Se questo è calcio

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© foto di Giacomo Morini
mercoledì 19 settembre 2012, 11:25Il punto
di Niccolò Schirru

Che il calcio fosse sempre meno un gioco e sempre più un grande business lo avevamo capito oramai da anni. Fino ad ora però non era mai stato messo in discussione il rapporto di fedeltà tra la società e i propri tifosi. D’altronde, chi segue con passione e amore vero le sorti della propria squadra risulta essere il principale azionista di queste macchine da soldi che sono diventate le società professionistiche. A intaccare il rapporto con il proprio pubblico, negli ultimi mesi, è stato il Cagliari di Massimo Cellino. Già, perché la pazienza di ogni tifoso viene messa quotidianamente a dura prova dall’annosa questione stadio. Prima c’era il Sant’Elia, e la speranza, per il tifoso che seguiva ogni domenica i propri beniamini, di poter un giorno apprezzare il fantomatico nuovo stadio che da un decennio è la bandiera sventolata con orgoglio dal numero uno di Viale La Playa. La svolta si è avuta nel finale dello scorso campionato, quando un Cagliari impelagato nella lotta per non retrocedere è stato fatto emigrare a Trieste per problemi di agibilità dell’impianto cagliaritano. In realtà l’agibilità dell’impianto sussisteva, anche se solo parziale. Ma tutti, dai media ai giocatori passando per gli stessi tifosi, mormoravano ritrovandosi a ogni gara casalinga in uno stadio vuoto a metà. Di lì la svolta. La decisione di emigrare a Trieste prima, poi l’idea di costruire in tempi record uno stadio prefabbricato a Quartu, in modo tale da poter disputare quantomeno tre campionati nell’hinterland cagliaritano prima di potersi trasferire nel fantomatico nuovo stadio del quale ancora non si conoscono le coordinate geografiche.

Già, il nuovo stadio di Quartu. Che sarebbe pronto, grazie a lavori condotti a tempo di record che hanno consentito di avere già a disposizione il settore distinti, le curve e il manto erboso.  La tribuna centrale è in via di perfezionamento, al pari dei bagni, degli spogliatoi e delle altre strutture. Ma il vero problema del nuovo impianto di Is Arenas risiede altrove: riguarda gli spazi sui quali lo stesso sorge. Strade strette, distanze minime tra le tribune e le vie della città. Ciò che manca nello stadio giocattolo costruito da Cellino sono le strutture minime indispensabili per garantire la sicurezza del pubblico e di chi è destinato a lavorare ogni due domeniche all’interno e all’esterno dell’impianto. L’idea di aprire al pubblico uno stadio in cui non vi è traccia di zone di prefiltraggio e di aree dove i tifosi possano stazionare in attesa dell’acquisto del biglietto o dell’ingresso nei loro rispettivi settori rasenta la follia. La soluzione? Chiudere al traffico le vie che circondano lo stadio, da Via Beethoven a Via S’Arrulloni, in modo tale da poter installare su quelle vie delle barriere che consentano di creare queste aree di stazionamento. Delle quali peraltro farebbero volentieri a meno il Cagliari Calcio e il Comune di Quartu, che a quanto sembra ricavarsi dalle cronache di questi giorni non riservano particolare attenzione alle normative in tema di sicurezza. Peccato per loro che gli organi preposti la pensino diversamente. E allora eccoci qua, in una situazione tragicomica che segna un’infinità di passi indietro rispetto al Sant’Elia aperto “solamente” a 14 mila spettatori.

E ora Cagliari-Roma dove si disputerà? Domanda amletica. Il Cagliari avrebbe potuto giocarla a porte chiuse a Is Arenas, se non si fosse reso protagonista di una fuga in avanti avendo aperto la vendita dei biglietti ben prima di avere le necessarie autorizzazioni. In questo momento circa 5000 persone avrebbero diritto a prender parte all’incontro, ragion per cui si vengono a creare dei motivi di ordine pubblico che potrebbero costringere il Cagliari a emigrare a Trieste o, ancora peggio, a perdere la partita a tavolino con tanto di penalizzazione. Di certo questi tifosi non potranno agire contro il patron rossoblù mediante class action se non vorranno incorrere in punizioni esemplari quali decadere dal diritto di prender parte agli incontri che, forse, il Cagliari disputerà in Sardegna. Già, forse, perché sui tempi di attesa per l’ottenimento di tutti i nullaosta vige la più totale incertezza. E si affaccia un triste possibilità: laddove permanesse l’impossibilità di ottenere le autorizzazioni necessarie, il sindaco di Quartu, Contini, potrebbe apporre la sua firma accollandosi ogni responsabilità derivante dall’apertura al pubblico dello stadio. Apertura che però sarebbe riservata a un massimo di 5000 spettatori. Grossomodo il numero degli abbonati rossoblù. Sarebbe una soluzione fantozziana al dilemma se con la mente ripassiamo i giorni in cui il Sant’Elia veniva bistrattato per la sua capienza ridotta a 14000 posti e qualche tecnico del diritto sportivo sosteneva persino che, con una tale capienza, non sarebbe più stato possibile ottenere dalla Lega l’autorizzazione a disputare il campionato di Serie A.

Com’è possibile pensare che questo sia calcio? Un calcio che si disputa negli uffici della prefettura o in quelli comunali. Un calcio che comporta scelte di campo tra i tifosi: da una parte quelli che vedono in Cellino un perseguitato da tutti (non si capisce però per quale motivo), dall’altra quelli che farebbero giocare il Cagliari in uno stadio costruito su una torta gelato. Il tutto fomentato da ogni tipo di populismo. I sondaggi di certi media che chiedono ai loro lettori se sia giusto o meno aprire al pubblico lo stadio, come se tutti fossimo tecnici della materia in grado di esprimere un parere. O ancora l’antitesi terribile tra il poliziotto e il calciatore. Il primo guadagna 1200 euro al mese e giustamente esprime le sue rimostranze di fronte all’ipotesi di dover lavorare in certe condizioni. Il secondo al mese guadagna circa 40 mila euro e ha il coraggio di considerare un’assurdità la non apertura al pubblico dell’impianto, come se questo comportasse un rischio reale e concreto per la sua attività lavorativa.

No, questo non è calcio. E’ un qualcosa che sfugge a qualsiasi regola sportiva. E che pian piano allontana i tifosi da quello sport magnifico che ha come protagonista il pallone, che in Sardegna vale doppio perché ha il potere di sprigionare un energia identitaria nei supporters della squadra che rappresenta la regione. A Cellino va il merito, in un’Isola straziata dalla crisi e dalla disoccupazione, di aver tenuto nella massima serie l’unica società di calcio professionistico sarda. Ora però non la sottragga ai suoi tifosi con scellerate scelte strategiche.