Insulti in Cagliari-Roma, scoppia il caso. Boi: “Folorunsho è un mostro? No, fa parte del gioco”
Il caso esploso durante Cagliari–Roma continua a far discutere, dividendo tifosi, opinione pubblica e addetti ai lavori. Tutto nasce al 78’, quando Folorunsho, dopo un acceso confronto con Mario Hermoso in seguito al contatto in area tra Ghilardi e Palestra, si lascia andare a frasi pesantissime. Le telecamere lo inquadrano in primo piano proprio mentre pronuncia: «Tua madre fa i… tua madre deve morire. Quella p…». Parole che in pochi secondi fanno il giro dei social, accendendo il dibattito.
A caldo nessuna spiegazione, ma nelle ore successive arriva il messaggio di scuse del centrocampista sardo, affidato ai social: «Solo dopo la partita ho rivisto le immagini, non posso che chiedere scusa a chiunque si sia sentito offeso». Un tentativo di smorzare la polemica, senza però riuscire del tutto a spegnere l’incendio mediatico.
A prendere posizione è anche il giornalista de Il Tirreno, Giuseppe Boi, che su Facebook ha espresso un parere controcorrente destinato a far discutere. Nel suo post scrive:
“FOLORUNSHO È UN MOSTRO?
Vado controcorrente, conscio di rischiare delle critiche, ma io sto con Folorunsho. E non perché veste la maglia del Cagliari, ma perché trovo assurda questa richiesta mediatica di una punizione esemplare per un episodio che avviene ogni benedetta partita sui campi di calcio, dalle giovanili alla Champions league. Ben inteso, gli “apprezzamenti” che rivolge alla madre di Hermoso sono beceri. Ma non si tiene conto del contesto in cui sono pronunciati: un campo da calcio. Vale a dire un luogo in cui provocazione e insulto, piaccia o non piaccia, fanno parte del gioco.
Folorunsho è un mostro? No, nella maniera più assoluta. Provocare l’avversario in un campo di calcio è un reato o una violazione del regolamento? Assolutamente no, sfido chiunque a dire il contrario. Il trash talking è una peculiarità del centrocampista rossoblù? Men che meno, è una cosa che esiste da quanto esiste il pallone, anzi, da quando esiste lo sport.
Provocare, insultare, giocare sporco con parole e atteggiamenti è una componente insita nel competere sportivo. Diventa un comportamento scorretto, con conseguenze anche giuridiche, nella vita di tutti i giorni, ma non in un rettangolo sia esso in erba, in parquet o in terra battuta. E lo sa chiunque abbia mai calcato un terreno di gioco di qualsiasi tipo, in qualsiasi sport e a qualsiasi livello.
La provocazione, con mezzi più o meno eleganti, è agonismo e lo si scopre da piccoli. Ricordo ancora il mio Leonardo uscire in lacrime da un campetto di periferia: “Mamma, hanno detto che sei una p…a”. Fu la madre, e non io, a dirgli che faceva parte del gioco. Che anche lei riceveva insulti, sebbene nel volley le squadre fossero divise dalla rete. E Leonardo ha imparato a non farsi provocare e ad andare avanti. Anzi, qualche volta è lui stesso a provocare gli avversari. Ben conscio che è parte del gioco.
Chi oggi polemizza e chiede pene esemplari per Folorunsho lo ha capito? O fa finta di non saperlo per prendersi facili applausi e consensi?”
Un’analisi che non giustifica le parole, ma invita a contestualizzarle, riportando il discorso sul confine sempre più sottile tra agonismo, provocazione e rispetto. Un confine che, come spesso accade, passa per il giudizio pubblico molto più che per il regolamento