ESCLUSIVA TC - DIEGO LOPEZ: "Il mio anno peggiore la retrocessione del 2000, il migliore l'ultimo con Allegri. Indimenticabile l'esordio sulla panchina rossoblù. Oggi il Cagliari deve pensare innanzitutto a salvarsi: niente voli pindarici"

Una colonna portante della storia recente del Cagliari. Pilastro insostituibile del reparto arretrato, ha legato indissolubilmente il suo nome a quello del sodalizio rossoblù, forte di ben 344 presenze in gare ufficiali con la maglia dei quattro mori.
Ennesimo rappresentante della foltissima e munifica colonia uruguaiana che in Sardegna ha spopolato negli ultimi trent’anni, sfornando talenti purissimi, diamanti grezzi, profeti del futbol bailado e infaticabili pedalatori che hanno mantenuto un legame viscerale con l’Isola, ormai in riva al Poetto è di casa, dopo ben dodici anni trascorsi a difendere strenuamente i colori rossoblù e altre due stagioni vissute a Cagliari da allenatore capo.
È arrivato dal Racing Santander che era un ragazzo desideroso di misurarsi con il campionato all’epoca più competitivo e performante del mondo. Se n’è andato da capitano, dopo centinaia di battaglie affrontate senza mai risparmiare una sola stilla di sudore.
Diego Luis Lopez, inserito di diritto nella Hall of Fame del Cagliari, è quello che – ancora oggi – si può definire una bandiera. Dall’Uruguay ha seguito con trepidazione gli spareggi promozione che hanno visto coinvolti gli uomini di Ranieri, esultando come un qualsiasi tifoso al gol di Pavoletti segnato all’ultimo respiro nella corrida del San Nicola.
Diego, ricostruiamo il suo approdo al Cagliari, nel lontano 1998.
“Nei primi anni Novanta io seguivo tanto il Cagliari e la serie A, perché c’erano uruguaiani del calibro di Enzo Francescoli e Pepe Herrera. E sognavo di poter giocare in una squadra così importante, dove militavano tanti miei connazionali. L’opportunità arrivò nel 1998, quando giocavo nel Racing Santander, in Spagna. Ricordo che il presidente Cellino siglò l’affare a Madrid, poi con un aereo privato raggiungemmo la Sardegna. Così iniziò la mia avventura nell’Isola.”
Dei suoi dodici anni vissuti con i quattro mori sul petto - dal 1998 al 2010 – qual è quello che ricorda con maggior piacere e quello invece più difficile e travagliato?
“Partendo dall’anno più difficile, direi la stagione 1999-2000, quando retrocedemmo in serie B. Fu un peccato, perché oggi, rileggendo i nomi di quella rosa, ci rendiamo conto che avevamo uno squadrone. Incredibile che sia arrivata la retrocessione. Certo è che a volte i nomi non fanno la squadra, ma quello non era un organico da penultimo posto in classifica.
La stagione più bella è stata l’ultima, quella con Allegri in panchina. Campionato 2009-2010. Fino al momento in cui mi feci male contro il Siena, a gennaio, avevamo fatto benissimo, arrivando addirittura alle soglie della zona Champions League. Poi mancai per due mesi, e ritrovai la squadra in una posizione di classifica diversa. Nonostante avessi 35 anni mi sentivo fisicamente molto bene e in forma, prima che arrivasse l’infortunio. E quel Cagliari giocava benissimo, disinvolto e spregiudicato. Per questo dico che i sei mesi da agosto 2009 a gennaio 2010 sono stati forse i più entusiasmanti che ho vissuto in maglia rossoblù.”
Una domanda su Allegri: quel Cagliari che lei ha ricordato propugnava un gioco molto offensivo, andava in gol con tutti i centrocampisti e teneva il baricentro sempre alto. Caratteristiche ben diverse da quelle della Juventus attuale, tanto che Allegri è nell’occhio del ciclone per il fatto di offrire un calcio eccessivamente sparagnino. Lei come spiega questa inversione di tendenza del tecnico livornese?
“Io credo che il mister, in realtà, abbia sempre avuto questa idea di calcio offensivo. Poi dipende tanto dai giocatori che ti ritrovi ad allenare. Guardando al centrocampo di quel Cagliari c’erano Daniele Conti, Michele Fini, Davide Biondini - forse tecnicamente il meno dotato, ma dava un grande contributo in termini di quantità e corsa - e Andrea Lazzari, con Cossu dietro le punte. C’era poi Jeda, che non era un attaccante vero e proprio ma veniva spesso a giocare a centrocampo. Per cui parliamo di giocatori con caratteristiche molto offensive, che Allegri sfruttava appieno per proporre il suo gioco.
Poi in difesa c’ero io assieme a Canini e ad Astori. Sulle fasce Agostini e Pisano: tutti calciatori che giocavano da tanto tempo insieme e che si conoscevano a memoria.
Con un collettivo del genere il mister non poteva che sposare una filosofia offensiva. Pressavamo alti, lavoravamo bene in fase difensiva e anche le transizioni erano molto collaudate, dirette e brillanti. Eravamo belli da vedere. Questo per dire che quando hai a disposizione interpreti di un certo tipo è più facile approcciare le partite in modo propositivo e spettacolare.”
Veniamo alle sue due esperienze da allenatore capo sulla panchina del Cagliari: 2012-2014 con Cellino presidente e 2017-2018, sotto la presidenza Giulini. Quale delle due avventure le è rimasta maggiormente impressa?
“Nonostante l’importanza cruciale della salvezza ottenuta nel 2018, non posso dimenticare la fiducia che Cellino ripose in me nel 2012-2013. Quella fu una stagione vissuta in panchina assieme a Ivo Pulga, perché non avevo ancora il tesserino per allenare. Il presidente mi affidò la squadra sapendo che non avevo maturato alcuna esperienza in serie A: non fu poi così difficile, perché gran parte dei giocatori erano stati miei compagni di squadra appena qualche anno prima. Non ci misero molto ad abituarsi a vedermi non più come loro capitano, ma come loro allenatore. E mi diedero una disponibilità eccezionale. Ecco, quello forse è stato l’anno più importante in assoluto.
Poi è vero che la salvezza con Giulini del 2018 fu una rincorsa incredibile. E dico incredibile perché, a mercato chiuso, contro il Sassuolo si infortunò Cigarini, che nel nostro rombo era il vertice basso e di fatto il faro, il metronomo della squadra. Dettava i tempi di gioco. Dovette star fuori per circa tre mesi. In più si aggiunse la vicenda del doping di Joao Pedro, che ci privò di uno dei nostri principali finalizzatori. Se a quel Cagliari, che a mio avviso stava andando piuttosto bene, toglievi quei due giocatori chiave la squadra ne risentiva parecchio.
Andammo dunque a giocarci la permanenza in serie A nelle ultime tre gare contro Roma, Fiorentina e Atalanta. Con la Roma perdemmo 1-0 in casa nonostante una grande prestazione. A Firenze, contro i viola che erano ancora in lizza per andare in Europa, già al nostro arrivo avevamo visto che il settore ospiti era pieno di tifosi sardi. Questo ci diede fiducia a consapevolezza, perché anche la nostra gente credeva nell’impresa. Vincemmo 1-0 una gara tirata e difficilissima. Poi completammo l’opera a Cagliari contro l’Atalanta, vincendo 1-0 e mettendo in ghiaccio la salvezza. Fu un risultato importantissimo per me, per il Cagliari e per tutto l’ambiente.”
Come intervenne lei nell’anno di Giulini per rimettere in carreggiata una squadra che era partita molto male con Rastelli, il quale invece aveva fatto un ottimo campionato nella stagione precedente?
“Secondo me la squadra c’era. Giocavamo col 5-3-2, modulo che assecondava le caratteristiche dei calciatori e con il quale abbiamo fatto, secondo me, anche delle ottime partite, mettendo in mostra un buon calcio. In serie A, del resto, non puoi limitarti a fare la fase difensiva e ad andare sulle seconde palle: devi giocare.
Un elemento chiave, come dicevo, era Cigarini, perno del centrocampo. Talvolta Joao Pedro fungeva da mezzala sinistra. Avevamo più soluzioni. Stavamo anche facendo bene, poi sono successe delle cose e abbiamo attraversato delle vicissitudini che ci hanno portato in fondo alla classifica. Ma i giocatori, ripeto, c’erano. Avevamo un Pavoletti ancora giovane e un Nicolò Barella che era un talento in erba, ma che già lasciava intravedere una grande grinta e un gran carattere. In difesa c’era Fabio Pisacane: di lui si diceva che, siccome non c’era più Rastelli, non avrebbe giocato. Io lo presi da parte e gli dissi di stare tranquillo, perché se avesse dimostrato di meritare di scendere in campo avrebbe avuto una maglia da titolare. Alla fine si rivelò un elemento determinante, perché nei momenti chiave ci diede un grande contributo in termini qualitativi e di personalità.”
Aprendo una finestra sul futuro, come vede il Cagliari appena risalito in A con Ranieri? Pensa che la squadra debba essere sostanzialmente modificata in sede di calciomercato o l’ossatura di base va mantenuta e semmai puntellata?
“Parlo da tifoso. Noi in Uruguay abbiamo visto le finali playoff. I miei tre figli maschi sono nati e vissuti a Cagliari, e hanno assistito alla partita di Bari assieme a me. Sono supporter sfegatati. Credo che la promozione sia stata meritata. Il Cagliari è andato a giocare al San Nicola con grande coraggio e personalità, avendo a disposizione un solo risultato.
Quanto al prossimo anno, in serie A è importante avere giocatori di qualità ma soprattutto un gruppo forte e coeso, in grado di venir fuori dai momenti di difficoltà. L’obiettivo deve essere giocoforza la salvezza; se si pensa ad altro si parte già col piede sbagliato. Il Cagliari deve pensare a mantenere la categoria ben sapendo che all’Unipol Domus arriveranno Milan, Inter, Juventus, Lazio… e che anche l’anno venturo, se si otterrà la salvezza, bisognerà affrontare sempre queste grandi squadre. Con coraggio e con determinazione, certo. Ma consci del loro valore. Del resto anche per i tifosi credo che sia bello andare a vedere il Cagliari sfidare i top club di serie A, che è la dimensione giusta dei rossoblù. Sempre però senza dimenticarsi da dove si proviene e quali sono le vere, imprescindibili priorità.”