TMW - Ivan Cardia: "Prima otteniamo gli Europei, poi penseremo agli stadi"

Interessante editoriale da parte del collega di TMW, Ivan Cardia, in relazione agli stadi italiani che dovrebbero sorgere, tra cui c'è anche quello del Cagliari: "L’Italia è quel Paese in cui prima ti siedi a cena in un ristorante stellato e poi ti chiedi come diamine pagherai il conto. Dell’arrangiarsi abbiamo fatto un'arte, il Made in Italy è cavarsela quando nessun altro lo immaginerebbe possibile. E pazienza se gli altri ci vedono con lo stupore che il marziano Kunt sollevò nei romani atterrando a Villa Borghese. È più o meno con lo stesso sguardo che da Istanbul - con tutto il rispetto: non proprio la Svizzera - stanno seguendo le peripezie che ci accompagnano verso l’organizzazione degli Europei condivisi del 2032. La genesi stessa della rassegna in compartecipazione con la Turchia, a cui ci legano storie e intrecci politici ma da cui ci separano parecchie migliaia di km, racconta le difficoltà che stiamo scoprendo, meravigliati, in questi giorni. Intendiamoci: il prestigio calcistico dell’Italia resta un dato indiscutibile, che anzi da bravi esterofili tendiamo spesso a sminuire. La prossima Supercoppa Europea a Udine certifica il credito internazionale del nostro Paese, che aveva ottenuto anche la finale Champions del 2027, prima che venisse revocata perché nessuno può dire se e quale stadio ci sarà a Milano in quella data. La reputazione costruita all’estero dai nostri dirigenti, su tutti lo stesso Gabriele Gravina che è primo vicepresidente Uefa, è un'ulteriore nota di merito. E l'idea di condividere con la Turchia l’organizzazione degli Europei ha rappresentato di per sé un colpo di genio: annusata la mala parata - se le candidature fossero rimaste due, sarebbe stata gara tra chi non aveva il pane (gli stadi) e chi non aveva i denti (la storia) -, si è scelto di unire le forze anziché giocare a chi avrebbe avuto più difficoltà. Peccato che, a un certo punto, questi benedetti stadi li dovremo pur sistemare. Il processo decisionale alla base dell’assegnazione condivisa, visto dal nostro Paese, ha infatti seguito lo stesso percorso del cliente stellato di cui sopra. Prima ci prendiamo gli Europei, e poi in qualche modo faremo gli stadi per ospitarli. La grande competizione come volano per rifare le strutture: fessi gli altri che pensano che avere impianti decenti sia il punto di partenza per ospitare uno dei tornei sportivi più seguiti al mondo. Tutto perfettamente logico, certo. Infatti dalla Turchia - senza che nessuno si offenda: nemmeno la Germania - sgranano gli occhi e si chiedono come sia possibile, mentre lì è praticamente già tutto pronto. Da queste parti, invece, è corsa contro il tempo. In lizza ci sono dieci città. Facciamo undici, perché un po’ fuori e un po’ dentro la lista c’è Palermo, prima “riserva”. Ma perché no, facciamo pure dodici: alla porta c’è la stessa Udine, a cui basterebbe ampliare un po’ la capienza per avere piccole chance di farcela. Alcune città, del resto, sono in corsa solo pro forma.
L’unico stadio che a oggi possa dirsi sicuro di rispettare i requisiti Uefa è Torino, non a caso privato e che comunque non potrebbe ospitare la finale (altro tema, ci torniamo). Poi c’è Firenze: il Franchi è messo bene, avendo sbloccato i fondi del PNRR. Ecco, la resilienza: forse ci salverà quella. Il resto è un grandissimo punto interrogativo: Roma non è messa così male (ma all’Olimpico? A Pietralata? Al Flaminio?) e del resto la Capitale deve esserci per forza; a Milano l’inchiesta della Procura amplia il cono d’ombra sul futuro di San Siro. La scadenza per comunicare a Nyon le cinque città (le condizioni sono: progetto esecutivo approvato, finanziato e cantierabile entro aprile 2027), nel frattempo, si avvicina. Per la cronaca, non è ottobre 2026, ma un po’ prima: in quella data la Uefa deve avere già certezza degli stadi, e di conseguenza la deadline si sposta di fatto al 31 luglio 2026. Non aiuta nemmeno il fatto che governo (Andrea Abodi) e Figc (il già citato Gravina) vadano ognuno per fatti propri e se si parlano, al massimo, è per regalare stilettate tra le righe. Chiariamo: ce la faremo. In qualche modo, l’Italia riuscirà a difendere Euro 2032. Ma non si possono nascondere oggettive difficoltà e di conseguenza una soglia, più alta del previsto, di rischio di perdere l’organizzazione. Anche non ospitare la finale - ipotesi mica peregrina visto che, ripetiamo, noi siamo a zero e i turchi sono già pronti - assomiglierebbe a una vittoria mutilata, proprio per il prestigio del nostro calcio. Sulla rassegna, però, si gioca anche una partita di potere tra i due uomini più potenti del calcio italiano. Uno status, per la cronaca, inevitabilmente effimero in relazione alle rispettive cariche: Abodi, come tutti i ministri, è naturalmente legato allo scenario politico; Gravina a febbraio ha incassato un consenso pressoché unanime, ma basta poco perché si sfaldi e qualche crepa nell’elettorato si è già aperta. Ciascuno ha le sue sfide, i suoi meriti e i suoi demeriti. Da Abodi sono arrivati tanti annunci, troppi: l’autorità governativa, varata a maggio 2024, entrerà a regime (se tutto andrà bene) due anni dopo, e il commissario straordinario per gli stadi, promesso a dicembre, è tutto ancora su carta, appeso agli emendamenti del decreto Sport. Da Gravina, che ha gestito stagioni complicate, invasioni di campo e pochi supporti economici (in questo caso si dice Gravina per intendere il calcio italiano), fa un effetto straniante sentir dire, come in consiglio federale due giorni fa, che da settembre metterà mano alla riforma del calcio italiano. L’obiezione è naturale: da settembre sì, ma del settimo anno di mandato. Lungo il quale abbiamo ottenuto gli Europei, ma senza essere pronti: ora tocca difenderli, dall’occhio perplesso dell’Uefa e anche dagli scossoni interni. Da che parte stare? Da nessuna, si vorrebbe stare solo da quella dell’Italia".