ESCLUSIVA TC - FRANCESCO MORIERO: "Mazzone come un padre, e giocava un calcio d'attacco. Con Giorgi non andavo d'accordo, ma meritavamo di vincere la Coppa Uefa. Ora alleno la Nazionale delle Maldive"

ESCLUSIVA TC - FRANCESCO MORIERO: "Mazzone come un padre, e giocava un calcio d'attacco. Con Giorgi non andavo d'accordo, ma meritavamo di vincere la Coppa Uefa. Ora alleno la Nazionale delle Maldive"TUTTOmercatoWEB.com
venerdì 2 giugno 2023, 14:59Primo piano
di Matteo Bordiga

Per due anni ha imperversato sulla fascia destra rossoblù. Le sue serpentine ubriacanti, le sue scorribande e i suoi assist al bacio sono rimasti nell’immaginario dei tifosi cagliaritani, come quella squadra sfolgorante e memorabile in cui giocava. Con una qualificazione alla Coppa Uefa, ottenuta al termine di un cammino spettacolare, e una strepitosa semifinale l’anno successivo nella competizione europea, il Cagliari di Francesco Moriero ha consegnato i suoi interpreti e protagonisti alla storia del calcio isolano.

Guidati dal condottiero Carlo Mazzone prima e dal flemmatico Bruno Giorgi poi, i rossoblù sovvertirono ogni pronostico e fecero faville in Italia e in Europa. E Moriero si guadagnò la fiducia di “sor Magara”, che lo portò con sé alla Roma nel 1994.

Oggi l’ex ala destra leccese vive un’avventura esotica e stimolante al tempo stesso, allenando la Nazionale di calcio delle Maldive. Minimo comune denominatore con la Sardegna: il sole e il mare dipinto di verde e turchese. “Anche se qui la vita è dura, non è mica solo spiagge, mojito e relax”, tiene a sottolineare.

Francesco, quali erano i segreti del suo Cagliari che nel 1992-’93 si classificò sesto e si guadagnò l’accesso alla Coppa Uefa?

“Parliamo di un Cagliari storico: la squadra più ricordata in Sardegna dopo quella di Gigi Riva. Ricordata non solo per i risultati ottenuti, ma anche per il calcio che esprimeva: noi andavamo a giocarcela e a vincere su tutti i campi, anche contro le big. Ed eravamo trascinati dal tifo e dal calore della gente: un tutt’uno con noi giocatori.

Per essere sincero quando arrivai nell’Isola, dopo sette anni a Lecce, non ero poi così convinto. Ma poi mi innamorai del popolo sardo e vissi due anni da sogno, circondato da compagni fortissimi – penso a Francescoli, Festa, Pusceddu, Matteoli, Oliveira – e guidato da un allenatore fenomenale come Mazzone.”

A proposito di Mazzone: una certa narrazione calcistica in passato l’ha dipinto come un tecnico prettamente difensivista. Ma il vostro Cagliari giocava un calcio propositivo con tanti uomini d’attacco e con la filosofia di fare un gol in più dell’avversario.

“Il bello nel mondo del giornalismo è che tutti parlano e dicono la loro. Magari senza conoscere realmente i giocatori e gli allenatori di cui parlano, se non – al massimo – per sentito dire. Ho avuto Mazzone come tecnico per tanti anni, e posso assicurare che tutto era fuorché un difensivista. Certo, a Cagliari giocavamo con una difesa a tre, ma poi c’erano un tornante destro d’attacco – che ero io – e dall’altra parte un terzino fluidificante come Pusceddu, che spingeva tantissimo. Alla Roma, per dire, a sinistra c’era un giocatore come Amedeo Carboni. A centrocampo il mister schierava tre mediani di grandissima qualità, tutt’altro che votati alla sola fase difensiva. E poi davanti c’erano due punte, complementari tra di loro. Si scendeva in campo con un gran numero di giocatori offensivi.

Certi giudizi possono essere condizionati dal fatto che Mazzone utilizzava la difesa a tre, ma all’epoca quello era il modulo prescelto da tutti. Anche il grande Parma di Scala giocava con la difesa a tre. Poi si è passati a quattro con l’avvento della zona, ma oggi il miglior calcio lo fa Gasperini, che adotta la difesa a tre e non mi pare passi per essere un difensivista. Per non parlare di Juric, di Palladino del Monza, perfino dello stesso Guardiola.”

Veniamo all’anno della campagna europea, con Bruno Giorgi al timone. Cosa vi è mancato per superare un’Inter quell’anno non irresistibile e raggiungere una finale che tutta la Sardegna, a quel punto, sognava?

“Vincemmo la semifinale d’andata coi nerazzurri per 3-2, ma avremmo tranquillamente potuto vincere per 4-1. Sbagliammo tantissimi gol al Sant’Elia. Andammo poi a San Siro con la convinzione di potercela fare, ma nell’Inter rientravano giocatori importanti come Fontolan e Nicola Berti. Purtroppo nella gara decisiva creammo poco, mentre l’Inter capitalizzò con un certo cinismo le occasioni da gol avute.

In sintesi, trovammo un avversario che quel giorno ne aveva più di noi e perdemmo. Un grande peccato, perché io sono convinto che il nostro Cagliari meritasse di vincere la Coppa Uefa: una volta superato l’ostacolo Inter, l’avremmo conquistata a mani basse. Di quella cavalcata ricordo l’entusiasmo trascinante della gente, l’euforia che aumentava man mano che passavamo ogni turno. Tutta l’Italia tifava per il Cagliari.  

Eravamo una squadra giovane, ma con la mentalità giusta e tanta voglia di stupire: incarnavamo il sogno di un popolo intero.”

Carletto Mazzone e Bruno Giorgi a confronto: come li ricorda? C’erano delle analogie tra di loro o erano allenatori completamente diversi?

“Erano assolutamente diversi. Mazzone era come un padre, e controllava ogni aspetto della tua vita sportiva e privata: sapeva sempre cosa facevi durante il giorno, dove andavi a cenare, con chi uscivi. Pretendeva dai suoi calciatori il rispetto rigoroso delle regole. E che dessero il cento per cento in campo.

Quando faceva acquistare un giocatore la prima cosa che gli diceva era: ‘Io ti ho fatto venire qui, ma tu da ora in avanti vivi sulla mia pelle’. Intendeva che, siccome l’aveva voluto lui in squadra, il ragazzo avrebbe dovuto fare sempre quello che diceva lui, e comportarsi secondo le sue direttive. Era una sorta di contratto non scritto, di patto d’onore.

Questo era Mazzone. Poi sapeva essere anche molto simpatico ed entrare in empatia coi giocatori. Ma esigeva da loro il massimo.

Con Giorgi, a dire la verità, non sono andato granché d’accordo. Lui mi vedeva più come terzino che come ala. Io poi all’epoca ero molto giovane, ero un ragazzo istintivo. E venivo dalla scuola Mazzone: ero abituato a fare le cose in un certo modo. Per cui ho dovuto lavorare sodo per conquistarmi il posto da titolare. Ricordo che una volta, dopo aver iniziato la partita dalla panchina, entrai nel secondo tempo e feci fare due gol. Da allora il mister mi schierò sempre dal primo minuto.

Caratterialmente non ci trovavamo, non c’era grande sintonia tra di noi. Ciononostante lo rispettavo e, ovviamente, davo sempre il cento per cento in campo. L’importante è quello: non con tutti gli allenatori ci può essere un rapporto come tra padre e figlio, ma il lavoro altrui va rispettato.”

Francesco, riesce ancora a seguire il Cagliari? Cosa ne pensa della squadra che quest’anno sta cercando con tutte le sue forze di ritornare in serie A?

“Lavoro all’estero, quindi seguo poco il calcio italiano. Però mi informo sempre dei risultati delle squadre in cui ho giocato. Mi ha fatto molto piacere il ritorno di Ranieri a Cagliari: con la sua esperienza ha riportato entusiasmo in un ambiente che negli ultimi anni, complici i risultati negativi, si era un po’ raffreddato. Ha creato un gruppo vincente e ha riavvicinato la squadra ai tifosi: questi sono i presupposti giusti per risalire la china. È fondamentale l’alchimia tra la piazza e la squadra.

Certe volte la tecnica e la tattica significano poco: quando un calciatore, anzi un ragazzo attraversa un momento difficile bisogna stargli vicino e capirlo, aiutarlo a portare avanti i suoi obiettivi. In questo l’esperienza di un tecnico navigato è determinante. Poi va detto che il Cagliari è forte, ha carattere: non si ribalta un avversario di qualità come il Parma senza queste prerogative.”

Adesso lei allena la Nazionale maldiviana: un’avventura affascinante e ricca di incognite. Cosa le sta dando questa nuova esperienza?

“Non avrei mai immaginato di diventare il CT delle Maldive. Volevo fare un’esperienza in Asia, così ho accettato questa proposta e sono venuto qui ad allenare. I primi tempi mi sono guardato attorno, e mi sono subito reso conto del fatto che il calcio da queste parti c’entra poco con quello europeo. Tutto è diverso, sia sotto il profilo tecnico-tattico che dal punto di vista della preparazione fisica. Mi confrontavo con una cultura nuova, quindi all’inizio ero piuttosto perplesso e preoccupato. Così ho seguito gli allenamenti delle squadre - molto meno intensi rispetto a quelli dei club europei - e ho cercato di farmi un’idea sulle problematiche e sulle esigenze dei miei calciatori.

In due anni abbiamo costruito una Nazionale che adesso è reduce da sei partite consecutive vinte. A ottobre cominceranno le qualificazioni mondiali. Ora la squadra ha una sua mentalità e un suo gioco: bisogna ricordare che non è composta da giocatori professionisti. Però da loro sto imparando tanto: di sicuro hanno fatto ulteriormente crescere il mio amore profondo per questo sport, nella sua essenza più pura.

Lavorare qui non è come vivere un’eterna vacanza. La gente pensa ai resort, al mare cristallino, alla bella vita. In realtà c’è tanto da fare: sfido chiunque a venire al mio posto a fare calcio alle Maldive. I ritmi di lavoro sono duri, e si sgobba. Certamente c’è il sole, ma non siamo qui per goderci una pensione dorata.”