ESCLUSIVA TC - REMO GANDOLFI: "Le mie storie dall'Inghilterra al Sudamerica: racconto il calcio dei matti, dei miti e delle meteore. La serie A ha perso appeal. Ranieri ha qualche colpa nell'avvio stentato del Cagliari, ma ora la squadra gioca"

Si definisce “un cacciatore seriale di storie”. Si rimbocca le maniche, si arma di pazienza (ma soprattutto di sana, bruciante passione), estende i confini della sua ricerca all’intero panorama del calcio internazionale, lascia andare la penna e scrive.
Scrive di calciatori spettinati, avventurosi, rocamboleschi. Più o meno conosciuti. Scrive di ribelli (i “Mavericks”, come lui stesso li definisce), di eroi, di miti leggendari e di carneadi con dietro una vita da romanzo d’appendice. Con una predilezione speciale per il football “britannico e sudamericano, che da sempre rapisce la mia fantasia”.
Remo Gandolfi, originario di Parma, 60 anni, è uno scrittore la cui missione è quella di raccontare il calcio in ogni sua sfaccettatura e spigolatura attraverso le storie di squadre vincenti (o perdenti) o di singoli passati ai raggi X non solo come calciatori ma, innanzitutto, come uomini.
Remo, ci racconti come nascono i suoi libri che dipingono il calcio in una prospettiva inedita e stimolante. Cosa la ispira maggiormente nel rutilante e variopinto mondo del pallone?
“Io non faccio fatica a definirmi un malato di calcio, fin dalla tenerissima età. Col pallone ho sempre avuto a che fare: ho giocato a calcio, sono stato allenatore – dispongo del patentino Uefa – e poi ho iniziato a coltivare la passione per la scrittura. E per me scrivere di pallone significava andare a riscoprire quelli che, negli anni in cui iniziavo a innamorarmi di questo sport, erano stati i miei primi idoli.
Partii dall’Inghilterra, la mia ‘culla calcistica’ per antonomasia, facendomi mandare direttamente da Oltremanica, in un periodo in cui non esistevano ancora le pay tv – parlo della fine degli anni Settanta, per intenderci – i VHS delle partite del campionato inglese dell’epoca. L’amore per il football made in England nacque precisamente nel 1979, quando vidi su Capodistria la finale di Coppa d’Inghilterra: Arsenal contro Manchester United, stadio di Wembley vestito a festa, centomila spettatori impazziti. In più fu una gara sontuosa: vinse l’Arsenal 3-2 e, da quel giorno, per parecchio tempo mi sentii un ‘Gunner’.
Successivamente la mia curiosità mi portò a sviscerare il calcio sudamericano - soprattutto quello argentino - per poi concentrarmi anche su altre realtà europee ed extraeuropee. Il mio ultimo libro, ‘Matti, miti e meteore del calcio dell’Est’, mi ha regalato un divertimento incredibile. Sono andato a scoprire storie nascoste – anche perché dai Paesi dell’Est, fino a poco tempo fa, non è che filtrassero molte informazioni – come quella della sconfinata ammirazione che il grande Lev Jascin provava per Vladimir Beara, portiere jugoslavo il cui nome ai più dirà ben poco. Insomma, cerco di focalizzarmi sempre sul lato sportivo ma anche su quello più umano, che è centrale in tutte le vicende che indago e rispolvero. Da questo punto di vista faccio un plauso e rivolgo un sentito ringraziamento alla mia casa editrice, la Urbone Publishing, che non ragiona solo secondo una logica di tornaconto economico, ma ama dare visibilità a racconti di vita vissuta che altrimenti sfuggirebbero all’attenzione del grande pubblico.”
Remo, lei seguirà appassionatamente il calcio di oggi e si sarà fatto un’idea precisa degli attuali, principali campionati internazionali. Che cosa ne pensa della nostra serie A, che ha perso il fascino di alcuni anni fa e non sempre offre partite, per ritmi di gioco e spessore tecnico, all’altezza di quelle di altri tornei?
“Il calcio italiano è calato vertiginosamente a livello di appeal: lo vediamo nella pratica, visto che fatichiamo a venderne i diritti all’estero. Questo perché noi siamo ancora troppo legati alla logica del risultato. Questo gioco ormai, a livello internazionale, è diventato e deve essere uno spettacolo. Penso alle più grandi squadre europee: dal Real Madrid al Barcellona, dal Bayern Monaco al Manchester City. Per questi top team vincere non è più sufficiente: occorre farlo attraverso un certo tipo di calcio. Un football attrattivo, intrigante. Spettacolare, appunto.
In Italia, ancora oggi, vediamo partite di cartello che dovrebbero essere uno spot per il nostro movimento e che, in fin dei conti, deludono le attese, rivelandosi tecnicamente povere e soporifere. L’esempio più recente è quello dell’ultimo Milan-Juventus. Io nel pomeriggio mi ero goduto Aston Villa-West Ham - sfida, per inciso, tra due squadre non certo di vertice - e francamente sembrava un altro sport: due compagini che si sono attaccate e che hanno provato a superarsi dal primo all’ultimo minuto.
Diversi tecnici italiani, a mio avviso, per il tipo di gioco che fanno e per la mentalità che veicolano ormai hanno futuro solo qua da noi. Clamoroso è stato l’esempio di Allegri, che al netto delle svariate voci di corridoio all’atto pratico non ha ricevuto nessuna proposta da club stranieri importanti. Insomma, il nostro calcio deve fare un salto di qualità, e i primi a favorirlo devono essere quegli allenatori che sposano una determinata filosofia di gioco: penso a Italiano, a Di Francesco, a De Zerbi. O a Dionisi del Sassuolo, che è molto bravo. Ma serve che i presidenti e le società gli diano tempo di crescere e di far fruttare le loro idee. Il che, purtroppo, è tutt’altro che scontato. Enzo Maresca a Parma è stato liquidato dopo due mesi, e adesso sta riportando il Leicester in Premier League con un calcio scintillante.”
Veniamo al Cagliari di Claudio Ranieri. I rossoblù hanno vissuto un avvio di campionato a dir poco in salita, tra l’altro mostrando un calcio spesso balbettante e privo di brillantezza soprattutto nei collegamenti tra centrocampo e attacco. Ora, dopo il 4-3 al Frosinone e il passaggio del turno in Coppa Italia, si può essere più ottimisti, anche grazie al rientro di quasi tutti i lungodegenti rimasti ai box da agosto?
“Conosco bene Ranieri, e lui ha una caratteristica ben precisa: è assolutamente pragmatico. Faccio l’esempio del Leicester: giova ricordare – e non viene mai fatto abbastanza – che quando lui vinse la tanto celebrata Premier League con le Foxes aveva beneficiato anche del grande lavoro svolto dal suo predecessore. Nelle ultime otto giornate del campionato precedente il Leicester aveva vinto sette partite, perdendone solo una: si erano già poste le basi per la grande squadra allenata da Ranieri. Il mister romano cosa fece? Da persona pratica e intelligente, arretrò di venti metri il baricentro delle Foxes, blindò la difesa con due centrali fortissimi fisicamente e scatenò le ripartenze in campo aperto di due satanassi come Vardy e Mahrez.
Ecco, l’avvio di campionato del Cagliari mi ha ricordato un po’ quella filosofia: abbiamo un po’ di qualità davanti, ergo cerchiamo di difenderci con ordine, corriamo pochi rischi e il poi golletto magari arriva. Ma questa strategia non ha funzionato soprattutto perché mancava Lapadula, il bomber e il finalizzatore principe dei rossoblù. Nelle ultime gare i sardi hanno cominciato a giocare, sono rientrati gli uomini di qualità – penso a Viola e a Mancosu – e poi a Udine è tornato l’italoperuviano: se lui andrà in doppia cifra la squadra si salverà tranquillamente. E poi c’è Pavoletti: un giocatore di cui sono calcisticamente innamorato, perché è il centravanti ‘britannico’ di serie A più forte degli ultimi dieci anni. Piedi rivedibili, ma fisicità imponente e straordinaria presenza in area di rigore.
Infine mi piace molto Matteo Prati: un centrocampista difensivo dalla visione periferica, con l’intelligenza di far ripartire l’azione con semplicità, senza strafare, e con un innato senso della posizione. Su di lui scommetto a occhi chiusi.”
Tornando a Ranieri, secondo lei gli si possono attribuire delle responsabilità per il gioco non esaltante espresso dalla squadra nelle prime nove giornate o, piuttosto, sono state le numerose assenze di cui parlavamo prima a costringerlo a schierare un Cagliari prudente e attendista?
“Ranieri è un uomo molto intelligente, e su questo non si può discutere. Una parte di responsabilità ce l’ha sicuramente, per via della sua idea di calcio un tantino antiquata, se mi si passa il termine. Va riconosciuto che il salto dalla B alla A è complicato da gestire: ti ritrovi in un mondo completamente diverso. L’errore che ha fatto Ranieri è stato semplice: giocando basso, si è portato nella propria area dei giocatori di grande qualità tecnica, che sotto porta difficilmente sbagliano. Ma nelle ultime partite ha cominciato a cambiare approccio: ora il baricentro della squadra è più alto e si ragiona di più sul possesso palla, che non è artificio stucchevole e fine a sé stesso. Come diceva Liedholm, ‘quando la palla ce l’abbiamo noi gli altri il gol non ce lo fanno’. Credo che il mister sia intenzionato ad andare avanti su questa strada, anche perché la chiave della stagione del Cagliari risponde al nome di Gianluca Lapadula: se gli infortuni lo lasceranno in pace sarà lui a fare la differenza. Ma deve essere messo nelle condizioni di colpire.”