UN MIRTO CON... PASQUALE DOMENICO ROCCO

UN MIRTO CON... PASQUALE DOMENICO ROCCOTUTTOmercatoWEB.com
© foto di Federico De Luca
mercoledì 5 luglio 2023, 01:36Un mirto con...
di Matteo Bordiga

Un sardo acquisito. Così si sente lui dentro di sé, nel profondo.

Ha vissuto solo due anni in rossoblù, alla corte di Claudio Ranieri (1989-1991), ma la Sardegna gli è entrata nel cuore e nelle viscere, tanto da sognarla anche adesso che allena in Indonesia. Sì, in Indonesia, alla scoperta di un calcio “diverso, meno competitivo e professionale, ma che io e il mio staff stiamo cercando – lentamente e con fatica – di cambiare”.

Pasquale Domenico Rocco è stato protagonista della scalata dalla B alla A e poi della successiva salvezza in massima serie nel campionato 1990-’91, siglando anche un gol memorabile nella vittoria ottenuta al San Paolo contro i Campioni d’Italia del Napoli. Poi ha vagabondato in giro per l’Italia, costruendosi una buona carriera ma non riuscendo mai più a ritrovare le emozioni e le sensazioni respirate in Sardegna.

Il legame a doppio filo con l’Isola dunque rimane. Anche adesso che il buon Pasquale lavora dall’altra parte del mondo.

Pasquale, lei arrivò a Cagliari in prestito, nel 1989, dopo aver esordito in prima squadra con l’Inter.

“Fu un prestito di un anno in Sardegna. Poi, dopo il buon rendimento della prima stagione in B, diventarono due anni, terminati i quali tornai all’Inter, che mi stimava e mi considerava tra i suoi giovani più promettenti. Andare via da Cagliari, dunque, non fu una decisione mia: si trattava di un accordo già preso e sottoscritto dalle due società. Fosse stato per me non me ne sarei mai andato: tuttora mi sento sardo nell’anima e nel cuore, perché lo spirito di quest’Isola mi è rimasto addosso, così come la semplicità e la bontà della sua gente e la bellezza struggente dei suoi luoghi. Non saprei spiegarlo a parole: la Sardegna ti entra dentro e non ti lascia mai più.”

Che ricordi ha della sua esperienza nell’Isola, tanto dal punto di vista ambientale quanto da quello sportivo?

“Fu un’esperienza meravigliosa. Nata e maturata nel tempo, perché ricordo che all’inizio, in serie B, ci furono un po’ di problemi tra noi giovani e i veterani della squadra. Gente come Giovannelli, Bernardini, De Paola: senatori di grande carisma e personalità. Noi ragazzi non eravamo forse abituati alle pressioni e a tutto ciò che comportava giocare in una squadra importante come il Cagliari. Loro, che erano dei veri trascinatori, ci insegnarono subito a essere sempre sul pezzo, a non risparmiarci mai, a essere competitivi fino in fondo. Imparammo rapidamente la lezione: una volta appreso come dovevamo suonare la musica, iniziammo a suonarla molto bene. E si creò un’incredibile alchimia all’interno del gruppo, favorita anche dalla propensione di Ranieri a trasformare la squadra in una famiglia. Con dolcezza – e quando serviva anche con il bastone – Claudio costruì un collettivo straordinariamente compatto e unito.

Il concetto di ‘famiglia’ era esteso anche ai tifosi: non a caso le amichevoli del giovedì le disputavamo in giro per l’Isola, su precisa disposizione di Ranieri, e non nel nostro campo di allenamento al Poetto. L’obiettivo era quello di stringere tutta la Sardegna attorno alla squadra, legando i sardi - da Cagliari a Nuoro a Sassari - a una formazione che, di fatto, rappresentava una regione intera.

Il senso di appartenenza dei tifosi era viscerale. Noi e loro eravamo una cosa sola: quando si andava a giocare in trasferta nel ‘continente’, come dicono i sardi, tantissimi emigrati ci sostenevano allo stadio, facendoci sentire sempre a casa. Noi ci facevamo forti di questo e lottavamo senza paura su tutti i campi, come se fossimo ‘scortati’ e protetti dalla nostra gente.  

Sul piano della gestione tecnica il mister fu bravissimo a dare spazio a tutti, inserendo ciascun giocatore al momento giusto e rendendo l’intera squadra partecipe di un’autentica impresa. Dico impresa perché eravamo partiti per salvarci e, invece, a fine campionato ci siamo ritrovati in serie A.

Ricordo che, siccome all’epoca c’era l’abitudine di assegnare i cosiddetti ‘premi’ per il raggiungimento di particolari obiettivi, a inizio stagione Ielpo disse, quasi per scherzo: ‘Ma sì, inseriamo anche il premio promozione…’. Ma non ci credeva nemmeno lui. Invece fu incredibilmente lungimirante. Del resto a un certo punto cominciammo a vincere partite su partite, per cui la nostra autostima cresceva e ci convincevamo sempre di più di poter alzare l’asticella.

Devo poi riconoscere a Ranieri il merito di aver puntato fin dall’inizio sul concetto ‘volere è potere’, che è sempre stato il suo leitmotiv. A un certo punto regalò addirittura a tutta la squadra un oggetto – non ricordo esattamente cosa fosse – su cui campeggiava proprio la scritta ‘volere è potere’. Lui aveva questa capacità e attitudine: sognava in modo concreto. Non si limitava cioè a fare svolazzi, ma credeva fermamente ai suoi sogni e si applicava affinché si realizzassero.

Convinse tutti noi di poter pensare in grande. La stessa cosa l’ha fatta poi in Inghilterra, al Leicester, e l’ha rifatta nuovamente quest’anno a Cagliari. Si è rimesso in gioco, perché – come ha detto lui stesso – avrebbe potuto limitarsi a lasciare intatto quel bel ricordo che lo legava alla Sardegna e scegliere di non tornare. Invece ha deciso di rimboccarsi le maniche, rimettersi l’elmetto e traghettare per la seconda volta i rossoblù in serie A.”

A proposito dell’ultima promozione… Lei che idea si è fatto del Cagliari e del suo esaltante finale di stagione, culminato nella doppia finale playoff contro il Bari?

“A mio avviso Ranieri ha fatto un capolavoro ancora più grande rispetto a quello di trentatré anni fa, perché allora la squadra l’aveva costruita lui, mentre quest’ultima non era una sua creatura. È subentrato in corsa a rattoppare una situazione estremamente difficile, e ha adottato la sua solita formula: ha riavvicinato il Cagliari ai tifosi, facendo sentire i giocatori sostenuti e il pubblico partecipe del cammino della squadra. Ha creato una simbiosi assoluta, scrivendo la seconda, meravigliosa favola cagliaritana in trentatré anni. Questa volta con ancora più difficoltà, con ancora più ostacoli. Eppure ha tirato fuori una sceneggiatura perfino più entusiasmante di quella del 1990.”

Pasquale, veniamo a lei. Ora fa l’allenatore, e attualmente guida una squadra indonesiana. Cosa l’ha portata in Asia e che calcio ha trovato da quelle parti?

“Ho iniziato come allenatore-giocatore nei dilettanti in Umbria. La squadra stava retrocedendo, e col mio arrivo si è salvata. Mi sono trovato bene nelle vesti di mister, e dopo qualche anno di gavetta in Eccellenza ho deciso di fare il salto, puntando al professionismo. Così ho allenato le giovanili del Perugia e del Gubbio. Poi per un certo periodo ho collaborato con Walter Zenga, facendo il match analyst e curando più che altro la parte tattica a Catania e a Palermo. Quindi è iniziato il mio sodalizio con Andrea Camplone, a Perugia e a Bari, nelle vesti di collaboratore tecnico. Poi una tappa a Cesena e subito dopo, nel 2018, ho intrapreso una collaborazione con Paolo Tramezzani andando ad allenare, a Cipro, l’APOEL Nicosia. Lì io e Paolo abbiamo fatto benissimo, vincendo un campionato.

Successivamente, sempre all’APOEL, ho affiancato Thomas Doll, ben figurando in Champions League e in Europa League. Il rapporto con Doll, ex Lazio, si è consolidato sempre di più, tanto che subito dopo la pandemia mi ha voluto con sé, in qualità di vice-allenatore, sulla panchina del Persija, in Indonesia. Questo è il mio incarico attuale, dopo tanto peregrinare in giro per l’Italia e per il mondo.

In Indonesia si sta bene: la gente è squisita e tranquilla, pacifica. Quello che manca, devo essere sincero, è la voglia di competere e di primeggiare nello sport. La competitività è importante in qualsiasi disciplina sportiva per crescere e per ambire a traguardi sempre migliori. Da queste parti la mentalità è un po’ diversa, più rilassata. Non esiste la ‘garra’, la voglia di vincere a tutti i costi che hanno i sudamericani e gli italiani. Io e il mio staff stiamo cercando di cambiare, con molta fatica, questo modo di pensare.

Stiamo modificando sostanzialmente anche lo stile di gioco degli indonesiani, che prima consisteva quasi esclusivamente nei lanci lunghi per gli attaccanti, sul vecchio modello inglese. Ora stiamo insegnando ai calciatori a sviluppare l’azione per passaggi, ad arrivare in porta con la manovra ragionata e ad applicare determinati schemi. I tifosi sono orgogliosissimi del nostro lavoro e del cambiamento che stiamo apportando.

Ad ogni modo, devo essere sincero: c’è ancora tanto da lavorare. Anche nelle abitudini: qua i giocatori prima si cambiavano in macchina o in campo, anziché negli spogliatoi. Noi abbiamo imposto alcune regole di stampo europeo per disciplinare questi aspetti della vita quotidiana, rendendo tutta l’organizzazione del team molto più professionale.”