UN MIRTO CON... TIZIANO DE PATRE

UN MIRTO CON... TIZIANO DE PATRETUTTOmercatoWEB.com
© foto di Antonio Abbate/TuttoLegaPro.com
giovedì 25 maggio 2023, 01:13Un mirto con...
di Matteo Bordiga

Aveva un gran tiro dalla distanza, ed era maestro negli inserimenti in area di rigore. “Garra” da vendere e fiuto del gol invidiabile per un centrocampista. Fu indiscusso protagonista della pronta risalita in serie A successiva allo psicodramma di Napoli, sotto la guida illuminata di Gian Piero Ventura, con i suoi tackle e i suoi gol.

Fedelissimo dell’allenatore genovese, era stato portato da lui a Cagliari assieme ad altre pedine chiave del Lecce dei miracoli, capace di conseguire una doppia promozione dalla C alla A. Rimase in Sardegna per tre stagioni, lasciando dopo l’amara – e tutt’oggi incomprensibile – retrocessione del 1999-2000.

Ma di lui rimane il ricordo delle prime due, sfolgoranti stagioni, vissute da signore del centrocampo col vento sempre in poppa. Tiziano De Patre, abruzzese di Notaresco, ricordato ancora dai tifosi per un gol che valse al Cagliari una delle rarissime vittorie in casa ottenute contro il Milan negli ultimi trent’anni, rievoca con nostalgia e con un pizzico di commozione la sua luna di miele isolana. “Perché gli anni passano, e noi cominciamo a invecchiare. Più passa il tempo, più rimpiango le gioie e le emozioni vissute a Cagliari: città e popolo stupendo, peraltro affine per carattere a noi abruzzesi.”

Tiziano, partiamo dal ricordo del suo approdo in Sardegna: cosa ricorda dell’impatto con la città, con la gente, con la squadra? E poi come si inserì nello scacchiere tattico di Ventura, fino a diventare elemento imprescindibile del centrocampo?

“Provenivo, assieme ad altri tre-quattro calciatori, dal Lecce di Ventura, che aveva compiuto un percorso straordinario nei due anni precedenti. Il mister ci aveva voluto con sé a Cagliari, per provare a riportare questa grande piazza in serie A. Facemmo un grande campionato, nonostante le difficoltà di una categoria sempre ostica e scorbutica come la cadetteria e la presenza di tante altre squadre di rango.

Adottavamo un 3-5-2, un modulo che in pochi praticavano all’epoca. L’impronta dell’allenatore era molto forte, e infatti giocavamo un bel calcio, frizzante e propositivo. Ma bisogna dire che c’erano anche dei grandi interpreti, il che alla fine fa sempre la differenza in questo sport. Di fatto, nonostante la presenza di tre centrali difensivi, avevamo tre centrocampisti – quasi tutti abili a inserirsi e con un certo feeling con il gol – due laterali che erano praticamente due ali e due punte di spessore. L’assetto era molto offensivo, e direi anche innovativo per quel periodo storico. Non erano tante le squadre che giocavano alla nostra maniera, per cui quasi tutti facevano una gran fatica ad affrontarci. Situazione che peraltro si è ripetuta l’anno dopo in serie A, quando specialmente a Cagliari anche gli squadroni stentavano a imporre il proprio gioco, e spesso soccombevano sotto i nostri colpi.

Sono stati anni bellissimi e indimenticabili, che francamente ricordo con una certa malinconia. Eh sì, perché il tempo passa e noi invecchiamo. Più gli anni scorrono via inesorabili, più la nostalgia cresce: con la mia famiglia abbiamo vissuto splendidamente in una terra meravigliosa come la Sardegna. Un’esperienza che è rimasta scolpita nel nostro cuore e che non dimenticheremo mai.”  

Il suo Cagliari in serie B contava su pezzi da novanta come O’Neill, Vasari, Muzzi, Dario Silva. Eppure, nonostante la gioia della promozione, si classificò “soltanto” terzo. Questo sta a certificare l’alta competitività di quel campionato e il valore delle vostre avversarie.

“Assolutamente. Il torneo di quell’anno era di altissimo livello. Ma è una caratteristica intrinseca della serie B: si tratta sempre di un campionato molto difficile e combattuto. Anche quest’anno: basta vedere i nomi delle squadre che sono approdate ai playoff.”

L’anno successivo in serie A, ovvero la stagione 1998-99, fu caratterizzato da una evidente differenza di rendimento tra le partite interne e quelle esterne: tra le mura amiche il Cagliari era quasi imbattibile, mentre fuori casa denunciava una fragilità sorprendente. Come si spiega un andamento così altalenante, quasi “double face”?

“C’è da dire che il Sant’Elia ci dava una carica incredibile e intimidiva le squadre avversarie. Chi veniva a giocare da noi si sentiva spesso in difficoltà dal punto di vista ambientale. L’energia che ci trasmettevano i nostri tifosi e l’elettricità che si respirava sugli spalti erano il miglior carburante per noi in campo.

Tengo però a sottolineare che anche in trasferta abbiamo sfornato ottime prestazioni contro squadre molto forti, magari senza portare via punti. Tuttavia il nostro fortino era certamente il Sant’Elia: lì ci sentivamo a casa, protetti e trascinati dal pubblico, e ci esprimevamo al nostro meglio. Se avessimo avuto un po’ più di continuità e di solidità fuori casa quell’anno avremmo potuto toglierci delle soddisfazioni veramente grandi.”

Passiamo alla strana, indecifrabile stagione successiva, 1999-2000. Una retrocessione che ancora oggi si fa fatica a spiegare. Squadra talentuosa, con tanti elementi di sicuro valore in organico. Tasso tecnico elevato, due tecnici esperti come Tabarez prima e Ulivieri poi. Si creava tanto, anche se si subivano moltissimi gol. Cosa andò storto, secondo lei, fino a far precipitare la squadra nel baratro della serie B?

“La rosa era di valore. Eppure non funzionò. A mio parere perché non c’era quell’empatia, quell’unione tra di noi che aveva caratterizzato il gruppo negli anni passati. Qualcuno era andato via, in molti eravamo rimasti. Ma si era in qualche modo spezzata la magia. Era proprio una questione di amalgama, di compattezza del gruppo, di sintonia tra i calciatori. Il fattore umano prevalse su quello tecnico. Perché puoi essere forte quanto vuoi, ma se non scatta quella scintilla a livello umano e caratteriale non vai da nessuna parte.”

Tiziano, un suo ricordo personale della Sardegna. Un aneddoto che non ha mai raccontato, una cartolina dalle sue tre stagioni vissute nell’Isola.

“Gli aneddoti sarebbero tantissimi. Ma la cosa più bella è che io ho conservato tanti amici, in Sardegna, fuori dal mondo del calcio. Persone che ho conosciuto con la mia famiglia lontano dall’ambiente sportivo, in maniera semplice e spontanea. Ho potuto apprezzare la bontà, la lealtà, l’ospitalità dei cagliaritani. Valori in qualche modo simili a quelli di noi abruzzesi, che con i sardi abbiamo una certa affinità caratteriale: come loro siamo schivi, testardi, un po’ introversi. Forse è anche per questo che in Sardegna mi sono subito sentito a casa.

Da qualche anno non torno in terra sarda: l’ultima volta ho riabbracciato Cagliari in occasione dell’addio al calcio di Daniele Conti. Prima tornavo quasi ogni anno, ora è da un po’ che manco. Rimetterò presto piede sull’Isola, anche per salutare i tanti amici che ho lasciato lì e che ho tanta voglia di rivedere.”

E allora speriamo, in caso di un suo ritorno a breve, di festeggiare tutti insieme la promozione in serie A. A proposito, che chance attribuisce al Cagliari di centrare il colpo grosso ai playoff?

“Il Cagliari lo seguo sempre con grande affetto. Tra l’altro ho allenato anche un giovanissimo Gianluca Lapadula nella primavera del Parma. Adesso la squadra è in forte crescita, e arriva ai playoff nelle condizioni ideali. La rosa è ottima, così però come quelle dei rivali. Ma il Cagliari adesso è forte anche di una ritrovata serenità e consapevolezza nei propri mezzi, grazie all’apporto di un tecnico come Ranieri. È una formazione più logica ed equilibrata. E la mia speranza è che possa essere proprio Gianluca Lapadula, con un suo gol, a decidere la finale dei playoff.”