UN MIRTO CON... MARIO BRUGNERA

UN MIRTO CON... MARIO BRUGNERA
martedì 1 agosto 2023, 00:06Un mirto con...
di Matteo Bordiga

Quando si pensa al concetto di “bandiera”, così desueto e demodé al giorno d’oggi, non può che venire in mente lui. Certo, magari non al tifoso di Milan, Inter o Juventus. Ma allo sportivo cagliaritano il nome di Mario Brugnera, classe 1946, rievoca dolcissime memorie, ricordi indelebili e, soprattutto, ispira tanta tanta gratitudine.

Rossoblù dal 1968 (arrivato in Sardegna, insieme ad Albertosi, dalla Fiorentina), ha vestito la maglia dei quattro mori fino al 1982, con l’unica eccezione della stagione 1974-75 (vissuta con un altro rossoblù addosso, quello del Bologna). Una vita calcistica consacrata al Cagliari, passando attraverso periodi, momenti, epoche completamente diverse. Brugnera ha conosciuto l’ascesa, la gloria, la caduta, l’anonimato e la resurrezione. Ha iniziato il suo percorso isolano giocando da trequartista, dotato come era di una tecnica sopraffina e di un piede sensibilissimo, oltre che di un’intelligenza tattica fuori dall’ordinario. Poi, con l’incedere dell’età, ha progressivamente arretrato il suo raggio d’azione, fino a chiudere la carriera, all’inizio degli anni Ottanta, da libero.

Da Venezia – sua città natale – alla Sardegna. Dalla laguna allo Scudetto. L’ “illusionista” veneto, dall’accento ormai inconfondibilmente sardo, ha scritto una storia meravigliosa e incredibilmente longeva, legandosi peraltro per sempre alla città di Cagliari, dove tuttora vive (così come tanti altri protagonisti della memorabile cavalcata del ’69-’70).  

In questo periodo Mario gestisce una scuola calcio, l’Atletico Cagliari, proprio davanti a casa sua, e sta aspettando l’ok definitivo per realizzare tre campi in erba sintetica. Col sogno di poter veder sorgere, il prima possibile, il “Centro Sportivo Mario Brugnera”.

Mario, aldilà dell’annata magica che ha portato voi Giganti al tricolore, a quale periodo sono legati i suoi ricordi più vividi della sua lunghissima militanza in rossoblù?

“Ricordo in particolare i tre anni vissuti in serie B, dopo la retrocessione del 1976. Cercavamo di risalire a tutti i costi in serie A; una volta andò male, perché perdemmo agli spareggi promozione, ma nel 1979 finalmente riuscimmo a riconquistare la massima categoria. Poi feci altre tre stagioni in serie A, in cui mi divertii moltissimo giocando da libero. L’adattamento da centrocampista a libero non fu difficile: innanzitutto correvo molto meno, perché grazie all’esperienza maturata negli anni sapevo in anticipo dove andava a finire la palla e la prendevo sempre io. Dopo aver giocato come centravanti, come mezzala e come centrocampista, gli ultimi anni della carriera disputati da libero sono stati una pacchia. Non dovevo faticare come un mediano, che è sempre in movimento e spende tante energie, ma avevo il tempo di rifiatare, di posizionarmi correttamente e di intervenire quando ce n’era bisogno. Del resto avevo già 35-36 anni: in quel momento della carriera per me non ci poteva essere ruolo più adatto.

Ero un libero che sapeva anche sganciarsi e impostare l’azione. Alla Pierluigi Cera, per intenderci. E ogni volta che salivo avevo sempre qualcuno che mi copriva le spalle. I tre anni in serie A, dal ’79 all’82, furono bellissimi. Avevamo un’ottima squadra, che poteva contare su attaccanti come Piras, Selvaggi e Virdis. Poi c’erano i vari Marchetti, Bellini, Casagrande. Giocavamo un calcio moderno e piacevole. Io ero l’unico reduce della formazione dello Scudetto: per questo motivo i più giovani mi chiamavano ‘papà’ o ‘nonno’. Il segreto di quel Cagliari era l’intesa che c’era tra di noi: ci conoscevamo a menadito, avendo fatto già diverse stagioni in serie B insieme, e in campo ci trovavamo al volo. I movimenti erano quasi automatici, come gli ingranaggi di una macchina ben oliati.”

Torniamo ancora più indietro nel tempo, al Cagliari di fine anni Sessanta-primi anni Settanta che visse l’epopea più gloriosa della sua storia. Cosa le viene in mente ripensando a quel periodo irripetibile?

“Penso che quella era una squadra costruita grazie a degli scambi di mercato: io arrivai assieme ad Albertosi dalla Fiorentina, mentre l’anno dello Scudetto arrivarono Poli, Gori e Domenghini dall’Inter in cambio di Boninsegna. Soldi per fare ‘colpi’ da 100 o 200 milioni, come accade adesso, non ce n’erano. Io avrei tanto voluto giocare anche solo per un anno nell’epoca attuale: mi sarei sistemato per tutta la vita…

Quella dello Scudetto era una squadra compatta, granitica. Ci volevamo un gran bene ed eravamo tutti amici: non c’era nessuna primadonna, nonostante i nomi di spicco presenti in organico. In campo ci capivamo a meraviglia, a occhi chiusi; e se giocavamo al massimo delle nostre potenzialità non ce n’era per nessuno. Tutt’oggi continuiamo a vederci e ad andare a cena insieme, quando possiamo. Se qualcuno di noi, per qualsiasi ragione, ha bisogno di aiuto gli si tende sempre la mano. Siamo ancora una grande famiglia.

Oggi è tutto così diverso: i giocatori restano in un club per sei mesi e poi se ne vanno. Baciano la maglia mentre stanno trattando con un’altra squadra. Certo, guadagnano molto più di quello che guadagnavamo noi. Ma almeno noi possiamo dire di essere rimasti insieme per tantissimi anni e di aver creato un gruppo meraviglioso. Una bella storia di amicizia che durerà per sempre. E siamo tutt’ora legatissimi alla Sardegna: guai a chi ce la tocca! È la terra che ci ha accolto e ci ha abbracciato, regalandoci una vita splendida ed enormi soddisfazioni sportive.”

Venendo all’attualità, qual è l’auspicio di un Campione d’Italia come lei per il Cagliari di Claudio Ranieri, che ha riconquistato così faticosamente la serie A?

“Innanzitutto partiamo proprio da Claudio Ranieri: ha preso una squadra che rischiava di scivolare verso i bassifondi della classifica in serie B, piano piano grazie alla sua esperienza e alla sua bravura l’ha messa a posto in tutti i reparti e, alla fine, l’ha riportata in serie A. Un’impresa fantastica.

Il più grande augurio che faccio al Cagliari è che si fermi questa serie di infortuni che sta colpendo alcuni tra i giocatori più rappresentativi. Mancosu, Rog e Lapadula sono pezzi da novanta. Spero davvero che l’elenco non si allunghi. Affinché questo avvenga, a mio parere bisogna tarare al meglio la preparazione. Personalmente sono contrario a queste amichevoli fatte in estate dopo appena cinque-sette giorni di allenamenti. Ai nostri tempi, prima di giocare una partita vera e propria passavano almeno quindici giorni dall’inizio della preparazione. Facendo disputare ai ragazzi delle gare dopo soli tre-quattro giorni di lavoro il rischio è che i muscoli siano ancora freddi. E gli infortuni sono sempre dietro l’angolo.

Quest’anno spero che i rossoblù facciano un buon campionato. Secondo me è stato ottimo l’acquisto di Augello dalla Sampdoria, che ha rinforzato la difesa. Ora bisogna prendere anche qualche attaccante, perché lo stop di Lapadula può condizionare il reparto offensivo. Credo che prima occorra sfoltire un po’ la rosa: del resto la dirigenza e Ranieri sanno perfettamente chi deve essere ceduto e chi invece deve arrivare.

Ad ogni modo, penso che grazie all’esperienza di questo allenatore così navigato e tatticamente abile il Cagliari possa dormire sonni tranquilli in serie A.”