UN MIRTO CON... SANDRO TOVALIERI

UN MIRTO CON... SANDRO TOVALIERITUTTOmercatoWEB.com
giovedì 18 maggio 2023, 03:44Un mirto con...
di Matteo Bordiga

Il suo morso letale tramortiva gli avversari, poi li paralizzava e, inesorabilmente, li stendeva. Lasciandoli inermi e impotenti, mentre lui alzava le braccia al cielo e festeggiava con i compagni, magari improvvisando uno spensierato “trenino”.

Eppure, nella sua avventura in Sardegna, alla fine il veleno l’ha dovuto bere lui, sciogliendosi in una resa disperata e toccante davanti al suo pubblico, accorso in massa al San Paolo di Napoli per celebrare quella che doveva essere un’impresa e invece si è trasformata in una memorabile Caporetto sportiva.

Sandro Tovalieri, per tutti “il Cobra”, coi suoi denti aguzzi ha mietuto tantissime vittime in carriera. Un fiuto del gol innato, un carisma da trascinatore in campo, un amore profondo e sincero – sempre corrisposto dai tifosi - per tutte le maglie vestite in quasi vent’anni di onorato servizio.

Per lui sfogliare l’album dei ricordi cagliaritani è una poesia dolceamara. Tante reti, tante vittorie, il calore travolgente di un popolo che spingeva la propria squadra verso il miracolo di una salvezza impensabile dopo il girone d’andata. La speranza e poi la disillusione, culminata in un crudele pomeriggio assolato di giugno in cui neanche la sua zampata da predatore era servita a sublimare il sogno dell’apoteosi.

Sandro, partiamo dal principio: come nacque la trattativa che, nel gennaio del 1997, la fece sbarcare a Cagliari? E, soprattutto, che squadra trovò una volta approdato in rossoblù?

“Il Cagliari contattò le Reggiana, il club nel quale giocavo all’epoca, per provare a portarmi in Sardegna. La Reggiana, che aveva una classifica molto deficitaria, necessitava di fare cassa vendendo qualche giocatore, così l’affare si fece e io accettai con entusiasmo, perché sapevo che stavo approdando in una città fantastica e in una piazza importante. Anche il Cagliari si trovava in una posizione di classifica difficile, ma la scommessa era intrigante. Trovai una squadra composta da giocatori molto forti e motivati, e infatti disputammo un girone di ritorno a tutta birra per il quale avremmo sicuramente meritato di conquistare la salvezza, trascinati dalla spinta di un’Isola intera che ci sosteneva incondizionatamente. Mi porto ancora nel cuore il ricordo della gente sarda, che era il nostro dodicesimo uomo in campo e ci ricopriva di un affetto e di un amore commoventi.

Quella squadra, come dicevo, era piena di calciatori importanti dalle grandi doti tecniche. Il problema che aveva frenato il Cagliari nel girone d’andata era sicuramente di natura psicologica: quando si parte con altri obiettivi in testa e poi ci si ritrova invischiati nella lotta per la salvezza è complicato ‘riprogrammarsi’ e calarsi nella nuova realtà. Comunque non appena ci sbloccammo mentalmente inanellammo una serie di ottimi risultati e dimostrammo tutto il nostro valore, guidati in panchina da un maestro che non ci faceva mai mollare di un centimetro e ci teneva tutti in campana.

Lentamente rosicchiammo tutto il vantaggio che chi ci precedeva in classifica aveva su di noi, agganciando squadre come Perugia e Piacenza. Peccato per quella disgraziata partita alla penultima di campionato con la Sampdoria, persa in casa per 4-3. È quello il nostro grande rammarico, perché col senno di poi anche facendo un punto in quella gara, che giocammo per vincere fino all’ultimo respiro, avremmo messo in cassaforte la salvezza.”

Come giocava quel Cagliari indemoniato che disputò un girone di ritorno quasi da Coppa Uefa? Quali erano i segreti che vi avevano permesso di rilanciarvi così prepotentemente e di recuperare tutti quei punti?

“La nostra era una filosofia molto offensiva. Del resto dovevamo scalare parecchie posizioni in classifica, ed eravamo lontani dalla quota salvezza. Dunque dovevamo giocoforza aggredire qualsiasi avversario e cercare di ottenere il massimo sia in casa che in trasferta. Giocavamo con le due punte più il trequartista: c’eravamo io e Dario Silva o Muzzi davanti, supportati da O’Neill o Cozza. Un assetto sicuramente votato all’attacco, ma sostenuto da una difesa e da un centrocampo molto solidi e quadrati che ci permettevano di adottare un approccio propositivo e spregiudicato.                         

È stato molto bravo Mazzone a utilizzare a rotazione tutti i giocatori, che gli dimostravano attaccamento e dedizione alla causa. Un gran peccato a mio avviso è stato quello di non aver giocato lo spareggio col Piacenza subito dopo la fine del campionato: a quel punto noi andavamo a mille, mentre i piacentini erano un po’ sconfortati per il fatto di essere stati rimontati e costretti alla gara secca da dentro o fuori. Avremmo potuto approfittare dell’inerzia psicologica a nostro favore. Invece le settimane che trascorsero prima del match del San Paolo forse contribuirono non dico a rilassarci, ma ad appesantirci fisicamente e mentalmente. Si giocava di pomeriggio, col solleone, e i carichi di lavoro che avevamo sostenuto ci avevano un po’ fiaccato. Non dico che arrivammo scarichi, ma neanche al top della condizione. Poi la pressione era altissima: quella marea di tifosi sardi che affollavano gli spalti dello stadio di Napoli ci motivava, ma al contempo ci responsabilizzava tantissimo.”

Venendo al famoso match con gli emiliani, che cosa è mancato per avere la meglio? In cosa il Piacenza ci è stato superiore? Paragonando gli organici delle due squadre i favori del pronostico andavano sicuramente al Cagliari…

“Dal punto di vista tecnico non c’era confronto: eravamo nettamente più forti noi. Ma purtroppo le gare secche sono spesso imprevedibili. Non disputammo un buon primo tempo, facendoci sorprendere più volte dalle ripartenze piacentine. Ci ritrovammo sotto di due gol con quaranta gradi all’ombra: a quel punto dovevamo scalare una montagna. Nella ripresa il mio gol riaprì il discorso, ma il 3-1 ci tagliò definitivamente le gambe. Cercammo di spingere e di rischiare il più possibile: la partita la facemmo noi. Ma loro erano molto bravi nel ribaltare il fronte, e la loro filosofia pragmatica e utilitarista alla fine prevalse.”

I cagliaritani ancora oggi ricordano il suo gesto a fine partita, quando andò sotto la curva dei supporter isolani scuotendo le braccia in segno di resa disarmata, ma anche quasi a voler dire “ci abbiamo provato, ce l’abbiamo messa tutta, di più non potevamo fare”.

“Quello fu un gesto d’amore nei confronti dei tifosi, che ci avevano supportato per tutto l’anno. Ero frustrato, anche perché avevo disputato una stagione importantissima dal punto di vista realizzativo, segnando pure nello spareggio. Avevo preso a cuore la causa rossoblù, la sentivo proprio mia. E mi sentivo anche moralmente obbligato ad andare sotto la curva, perché i tifosi, pur nell’amarezza della retrocessione, ci acclamavano e ci applaudivano. Credo sia stato il primo caso del genere in Italia: in genere quando si retrocede piovono solo contestazioni e fischi. Invece no: i sardi inneggiavano alla squadra e a noi giocatori.

Mi colpii tantissimo anche il grande affetto dimostrato dai cagliaritani nei nostri confronti al ritorno in Sardegna, in aeroporto: scene toccanti che custodisco gelosamente tra i miei ricordi più cari.”

Dopo la grande rincorsa e il pieno d’affetto, l’inatteso divorzio. In tanti speravano che rimanesse in rossoblù per riportare il Cagliari in serie A. Cosa accadde dopo lo spareggio?

“Era mia intenzione quella di restare e di provare a guidare la risalita dalla serie B. Il problema è che i matrimoni si fanno in due. La società aveva bisogno di monetizzare e io quell’anno avevo fatto tanti gol, dunque ero appetibile sul mercato. Alla fine si trovò questo accordo con la Sampdoria e salutai l’Isola. Ma non voglio rinfacciare nulla a nessuno, né tantomeno criticare l’operato della società. Io ero pronto a rimanere, e feci le valigie a malincuore. Ma è il gioco delle parti: nel calcio funziona così.”

Avrà sicuramente fatto il tifo per Giampiero Ventura e per il suo rinnovato Cagliari nella stagione successiva, che effettivamente culminò nell’immediata risalita in serie A.

“Io faccio il tifo per tutte le squadre in cui ho giocato, perché ovunque sono andato ho lasciato un bel ricordo e mi sono trovato bene. Quando una mia ex squadra sale di categoria, o si rilancia o rinasce dopo un fallimento per me è una grande gioia, perché mi sento parte di quella realtà.”

Sandro, veniamo al Cagliari di oggi. Lo segue ancora?

“Certamente sì. La stagione del Cagliari è stata a due facce: una prima parte sotto le aspettative e poi, da quando è arrivato mister Ranieri, le cose sono andate meglio. La prima cosa che ha fatto Ranieri è stata mettere a posto la difesa: in serie B è la regola aurea, primo non prenderle. Poi davanti si può sempre trovare lo spunto giusto e l’attaccante capace di far gol. Fondamentale, inoltre, l’impatto che ha avuto l’arrivo del tecnico romano dal punto di vista ambientale: da quando il maestro è tornato nella sua Isola non si sono più registrati malumori o contestazioni, e il pubblico è nuovamente compatto al fianco della squadra nell’inseguire un obiettivo comune.

Ora il Cagliari, ai playoff, sarà una bella gatta da pelare per qualsiasi avversario. Si contenderanno la promozione in serie A squadre blasonate e di grande tradizione. Il Cagliari non ha niente da invidiare a nessuno. Certo, se la finale fosse tra i rossoblù e il Bari il mio cuore sarebbe diviso a metà. Anche in Puglia ho vissuto annate memorabili, e anche a quella città sono rimasto legato. L’ideale sarebbe stato che fossero salite direttamente, come ai miei tempi, quattro squadre: le altre due, dopo Genoa e Frosinone, avrei voluto che fossero proprio Bari e Cagliari.”