UN MIRTO CON... VITTORIO PUSCEDDU

UN MIRTO CON... VITTORIO PUSCEDDUTUTTOmercatoWEB.com
martedì 16 maggio 2023, 03:10Un mirto con...
di Matteo Bordiga

Il suo sinistro al fulmicotone era il terrore di tutti i portieri d’Italia. In maglia rossoblù, dopo una prima parentesi negli anni ’80 in serie B, nel 1993 ha conquistato la storica qualificazione in Coppa Uefa agli ordini di Carletto Mazzone e poi ha inseguito, assieme a tutta l’Isola, il sogno di alzare al cielo il trofeo continentale.

È passato attraverso l’era Giorgi, Tabarez, Trapattoni. È stato uno dei più grandi terzini mancini della storia del Cagliari.

Vittorio Pusceddu rievoca con un sorriso sulle labbra gli anni vissuti da protagonista al Sant’Elia, senza disdegnare un giudizio tecnico sulla stagione del Cagliari di Claudio Ranieri.

Vittorio, partiamo dal primo anno della sua seconda esperienza al Cagliari: 1992-‘93, la squadra conquista un’insperata qualificazione alla Coppa Uefa giocando un calcio pratico e brillante. Che ricordi serba di quella stagione?

“Un ricordo splendido. Riportare il Cagliari e la Sardegna in Europa dopo i fasti dello squadrone dello Scudetto per noi è stato un grandissimo orgoglio. La nostra forza era il gruppo, formato da bravi ragazzi che si volevano bene e che giocavano un gran calcio. Inoltre lottavamo sempre tutti uniti per un unico obiettivo. A partire da noi sardi: da me a Festa, da Sanna a Matteoli. Col valore aggiunto dei grandi stranieri che avevamo in squadra: Herrera, Francescoli, Oliveira. Eravamo un team equilibrato e ben organizzato, gestito da un allenatore competente e bravissimo a tirare fuori il meglio da ciascuno di noi.

Dopo le stagioni esaltanti della gestione Ranieri, culminate con una doppia promozione e una fantastica salvezza in serie A, noi abbiamo fatto un ulteriore salto di qualità. Credo che dopo lo Scudetto del ’70 la nostra, con l’approdo in Coppa Uefa e la successiva cavalcata fino alla semifinale europea, sia stata la più grande impresa nella storia recente del Cagliari. Che ha riempito d’orgoglio i nostri tifosi, i quali ci seguivano in massa con una dedizione quasi commovente. A Malines, in coppa, sotto la neve, col campo ghiacciato e con una temperatura polare c’erano più tifosi sardi che supporter belgi sugli spalti. Sembrava che giocassimo noi in casa. Questa è rimasta per tutti noi un’immagine bellissima che ancora mi porto dentro.”

Focus sul condottiero della truppa che centrò l’Europa: Carletto Mazzone. Passa per essere stato principalmente un allenatore che infondeva grande grinta e determinazione alle sue squadre. Ma quel Cagliari non era solo sudore e furore agonistico: praticava un calcio moderno, organizzato, spettacolare. Come inquadra Mazzone dal punto di vista tecnico-tattico e quali erano i segreti che vi consentivano, sotto la sua guida, di vincere le partite?

“Innanzitutto ricordiamo che c’erano grandi giocatori in grado di spostare gli equilibri. Gente come Francescoli, che teneva palla quanto voleva nella trequarti avversaria, consentiva a noi terzini di salire per assistere gli attaccanti e alla squadra di riassestarsi in campo. Matteoli dettava i tempi con le sue geometrie chirurgiche, che per noi erano fondamentali. E poi ci aiutavamo l’un l’altro: se io riuscivo ad arare la fascia e a fare le mie sgroppate sulla sinistra era grazie all’intelligenza calcistica di Bisoli, che copriva le mie discese.

Senza togliere nulla agli altri, dico che i principali artefici di quell’impresa sono stati Francescoli e Matteoli: due giocatori immensi. Le due pedine chiave nello scacchiere di Mazzone.

Il mister dal canto suo è stato bravissimo ad assemblare al meglio una squadra che nessuno, a inizio campionato, avrebbe ritenuto in grado di raggiungere un simile obiettivo.”

Veniamo all’anno della cavalcata in Europa. Sulla panchina sedeva Bruno Giorgi. Che differenze c’erano, nell’approccio tattico ma anche nella gestione del gruppo, tra lui e Mazzone?

“Si tratta di due tecnici completamente diversi. Uno, Carletto, era sanguigno e impetuoso, mentre Bruno era flemmatico e posato. Ma riusciva a ottenere dai giocatori le stesse cose che Mazzone otteneva, magari, alzando un po’ la voce.

Ricordo che nella stagione ’93-’94 all’exploit in Coppa Uefa non corrispose un altrettanto brillante rendimento in campionato. Ma tante squadre fanno fatica a conciliare l’impegno su due fronti, in campionato e in coppa. In serie A non ripetemmo l’impresa dell’anno precedente, ma ci salvammo matematicamente sul filo di lana, a Lecce.

Tornando a Giorgi, era un uomo squisito e una persona alla quale non si poteva non voler bene. Con noi ha sempre avuto un ottimo rapporto: era come un padre. Né lui né Mazzone potevano essere definiti come dei difensivisti. L’anno di Giorgi c’erano stati un po’ di cambiamenti nella rosa: era andato via Francescoli ed era arrivato Dely Valdes. Il panamense era più punta, Enzo era più rifinitore con licenza di concludere.

Bruno e Carletto, alla fine dei conti, erano due allenatori che sul piano tattico non presentavano particolari differenze: a entrambi piaceva giocare bene a calcio, attaccare e far gol. Tengo però a sottolineare una cosa: nel bilancio che possiamo fare oggi della storica annata ’93-’94 non va sottovalutato nemmeno l’apporto di Gigi Radice, che era stato esonerato dopo la prima sconfitta in campionato contro l’Atalanta ma aveva diretto lui il ritiro precampionato, per cui le basi per quella stagione le aveva poste lui.”

Vittorio, un dubbio attanaglia tutti i tifosi rossoblù dal giorno della famigerata semifinale di ritorno con l’Inter: cosa era successo in quella nottata stregata a San Siro? Come fu possibile farci soverchiare da una formazione che, in campionato, si era dimostrata inferiore al Cagliari?

“Non ho mai dimenticato quella partita. Agita ancora i miei sonni. Si è scritto, detto e favoleggiato di tutto su quella serata. Io che l’ho vissuta sul campo posso dire che, senza tema di smentita, l’arbitro ci ha veramente penalizzato. Inizialmente il direttore di gara doveva essere il francese Vautrot, internazionale con grande esperienza. Poi ci mandarono un inglese, Don, che assegnò subito un rigore all’Inter per un tocco neanche di mano, ma al massimo di pollice in area da parte di Marco Sanna. Subito dopo un difensore dell’Inter affossò Firicano che stava per colpire la palla di testa in area su un cross di Matteoli, e l’arbitro fece finta di niente. Quello era un rigore solare, con il VAR e senza il VAR.

È stato a quel punto che abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava. Già nel turno precedente, contro la Juventus a Torino, avevamo subito un rigore ridicolo per un contrasto sulla palla tra Fiori e Ravanelli, poi fortunatamente sbagliato da Roberto Baggio. Probabilmente, in vista di una semifinale o di una finale di Coppa Uefa, l’appeal dell’Inter o della Juventus era superiore a quello del Cagliari, per cui se era possibile metterci i bastoni tra le ruote lo si faceva.

Detto questo, anche noi in campo a San Siro sbagliammo qualcosa. Forse, inconsciamente, ci condizionò l’atmosfera del Meazza, con sessantamila spettatori contro di noi, il clima della gara in notturna... Sta di fatto che non rendemmo al massimo. Ricordo che non ci girò neanche bene nulla: a dieci minuti alla fine io colpii un palo clamoroso calciando insolitamente di destro. Se avessimo segnato il 3-1 magari avremmo potuto riaprire i giochi nel finale.

Rimane il fatto che, nonostante il finale amaro, tutt’oggi quell’avventura viene ricordata con grande trasporto, e noi fummo orgogliosissimi portare in alto il nome di Cagliari e di tutti i sardi.”

Secondo lei se fossimo giunti in finale poi avremmo sconfitto il Salisburgo, che sembrava una compagine alla nostra portata?

“Io mi ricordo che gli austriaci misero alle corde l’Inter nella finalissima. Zenga compì numerosi miracoli, specialmente nella partita di ritorno a Milano. Fu una doppia sfida stranissima nella quale, forse, chi avrebbe meritato di vincere era proprio il Salisburgo. Quell’anno una serie di circostanze concomitanti giocò a favore della vittoria dell’Inter.

Ad ogni modo, ciò che abbiamo fatto rimarrà per sempre nella storia. Dispiace non aver regalato una finale, magari anche perdendola, al popolo sardo. I tifosi se la sarebbero meritata, dopo tutte le soddisfazioni e l’affetto che ci avevano dato.”

Veniamo all’esperienza con Tabarez: stagione 1994-’95. Che cosa vi lasciò il “Maestro” uruguaiano, a livello calcistico ma anche sul piano personale?

“Tabarez era un tecnico preparatissimo ed eccezionalmente professionale. Il suo staff era all’avanguardia: all’epoca non facevamo mai lo stesso allenamento per due volte di fila. Ogni giorno si inventavano qualcosa di nuovo. Le sedute erano particolarmente intense e innovative nelle metodologie. In più il mister era un signore, un uomo d’altri tempi. Con lui facemmo un grande campionato, facendoci sfuggire una seconda qualificazione in Coppa Uefa solo a un paio di giornate dalla fine. Dopo aver battuto l’Inter a San Siro – una sorta di ‘vendetta’ un anno dopo la cocente eliminazione in semifinale – inciampammo in casa contro il Napoli e poi perdemmo a Torino contro i campioni d’Italia della Juventus. Ma serbo un ottimo ricordo anche di quell’annata, giocata bene e con grande convinzione.”

L’ultima sua stagione a Cagliari, 1995-’96, coincide con la scommessa-Trapattoni. Finì male, e la squadra tornò nelle mani esperte di Bruno Giorgi. Cosa andò storto nel rapporto tra il Trap e il Cagliari?

“Si erano create enormi aspettative attorno a quella squadra. Ricordo ancora i manifesti pubblicitari sugli autobus che profetizzavano il ritorno in Europa sotto la guida del Trap. L’entusiasmo tracimava, forse era addirittura eccessivo: i tifosi si ammassavano a bordo campo ad Assemini per assistere agli allenamenti, dato che sulle tribune non c’era più posto. Può darsi che questo clima di esaltazione generale ci abbia un po’ intimiditi.

Ovviamente Trapattoni era un grandissimo allenatore, ma aveva sempre operato in società blasonate e di primissimo livello. Devo dire che i suoi allenamenti, per quanto meticolosi e accurati, per noi non erano sufficienti. Se una squadra come il Cagliari non correva dal primo all’ultimo minuto faceva fatica, in quegli anni, a salvarsi. C’era bisogno di correggere il tiro, e infatti Bruno Giorgi, quando tornò al timone, cambiò completamente tecniche e metodologie di allenamento. Le sedute diventarono molto più dure e intense: cominciammo a carburare, convincendoci del fatto che, se volevamo rimediare al cattivo andazzo intrapreso con Trapattoni, dovevamo lottare su ogni pallone e non risparmiare nemmeno una stilla di sudore.

Aumentando il carico, migliorarono anche le prestazioni e i risultati. Inoltre Giorgi conosceva già l’ambiente e sapeva come rapportarsi al gruppo. Dopo una tranquilla salvezza e un decimo posto finale, disse al presidente Cellino che non avrebbe più risposto a eventuali chiamate del Cagliari, perché considerava conclusa la sua parabola nell’Isola. Più in generale credo che volesse chiudere con il calcio e ritirarsi a vita privata. Infatti dopo la seconda parentesi in Sardegna non allenò più.”

Dopo questo suggestivo viaggio nel passato, riproiettiamoci nel presente. Che ne pensa del Cagliari di oggi e del suo campionato dai due volti? Con che prospettive i sardi possono guardare alle gare di playoff?

“Il Cagliari se la può e se la deve giocare fino alla fine. I playoff sono indecifrabili, perché sono tante le squadre che hanno la legittima ambizione di salire in serie A. Devo dire che il Frosinone e il Genoa sono stati bravissimi: i laziali hanno dominato il torneo giocando un ottimo calcio dall’inizio alla fine, mentre i liguri hanno invertito la rotta col cambio di allenatore e l’innesto di Gilardino, che ha inanellato vittorie su vittorie.

Il Cagliari purtroppo ha collezionato qualche pareggio di troppo, che ora pesa. Con Ranieri però è molto cresciuto. In cosa può ancora migliorare? Nella vena realizzativa dei suoi centrocampisti. Sono un po’ mancati i gol degli interni e delle mezzali, sono mancati gli inserimenti dei tanti giocatori di qualità di cui la squadra dispone in mezzo al campo. A proposito, fatemi spezzare una lancia a favore di Alessandro Deiola, troppo spesso criticato dai tifosi per via dei suoi presunti limiti tecnici. Ebbene, io dico che sta facendo un campionato strepitoso. E inoltre è straordinariamente funzionale al gioco del Cagliari. Con lui bisogna avere pazienza: essendo un giocatore alto e con una certa struttura fisica, gli serve più tempo per entrare in forma. Ma adesso si sta comportando molto bene ed è sempre tra i migliori in campo. Ha un’importanza tattica cruciale nello scacchiere di Ranieri. Ed è l’unico a fare gol con continuità tra i mediani.

Ora vedremo cosa accadrà ai playoff. Di sicuro le rivali non molleranno. Penso ad esempio al Südtirol di Bisoli: una squadra che definirei a immagine e somiglianza del suo tecnico.”

A proposito di Pierpaolo Bisoli: lei che l’ha vissuto in campo, come lo vede nelle vesti di allenatore?

“Lo accosterei a Mazzone, per carattere, atteggiamento e spirito guerriero. Come Carletto è un sanguigno, uno che dà tanto ma pretende anche tanto. Emblematico un aneddoto legato alla sua esperienza a Cesena: quell’anno vinse il campionato e salì di categoria. A un certo punto promise alla squadra che se avessero vinto tutte le partite rimanenti da lì a Natale avrebbero goduto di ben dieci giorni di permesso. E così fu: il Cesena vinse tutte le partite e i giocatori ottennero, come premio, la concessione ‘monstre’ di dieci giorni liberi. Anche in questo Pierpaolo ricorda Mazzone: ‘sor magara’ era solito gratificare la squadra, quando vinceva, con dei premi materiali quali scarpe, cravatte, camicie etc. Andava ad Ascoli a rifornirsi e poi tornava da noi con questi ‘pegni’ singolari che amava regalare dopo una particolare vittoria o prestazione positiva.

Ecco, Bisoli è un personaggio di questo tipo. E infatti c’era un gran bel rapporto tra lui e Mazzone, intaccato solo da un piccolo screzio che si verificò quando il trasteverino era alla Roma e Bisoli giocava ancora nel Cagliari. Acqua passata, però. I due si sono sempre voluti un gran bene.”