UN MIRTO CON... LUCIO BERNARDINI

UN MIRTO CON... LUCIO BERNARDINI
venerdì 26 maggio 2023, 00:00Un mirto con...
di Matteo Bordiga

Dalle macerie al sogno. Dall’incubo all’eldorado.

Lucio Bernardini ha vissuto le due “facce”, quella buia e quella luminosa, della storia del Cagliari tra il 1985 e il 1990. Prima la discesa inesorabile in serie C, con la crisi societaria e l’incertezza sul futuro del club. Poi l’alba targata Tonino Orrù e Claudio Ranieri: un arcobaleno dopo la tempesta che, grazie anche alla sapiente regia del metronomo Lucio, cuore pulsante del centrocampo rossoblù, ha spalancato agli isolani le porte del paradiso.

Bernardini ricorda con affetto le sue cinque stagioni in Sardegna, e segue sempre il Cagliari da tifoso. Il suo unico rimpianto: la mancata riconferma in serie A, nel campionato ’90-’91, quando dovette fare spazio a Gianfranco Matteoli.

Lucio, come possiamo riassumere i suoi cinque anni a Cagliari, spesi tra delusioni, cadute, rinascite e trionfi?

“Il primo periodo è stato difficile. Non si navigava in buone acque a livello societario, il che si ripercuoteva anche sui risultati sportivi. Devo dire che io ero arrivato un po’ come ruota di scorta dei titolari che in quegli anni giocavano stabilmente, ma poi nel tempo sono riuscito a ritagliarmi un ruolo da protagonista in campo.

Dopo il periodo buio, è arrivata la rinascita. Le due promozioni consecutive, la Coppa Italia di serie C vinta. Mentre prima si percepiva chiaramente che il pubblico, benché venisse allo stadio, era distaccato e – diciamo – un po’ freddino, dopo con l’avvento di Ranieri si è riacceso l’entusiasmo e la piazza è tornata a farci sentire tutto il suo calore.

Quella squadra è rimasta nel cuore e nella memoria di tutti proprio perché è passata dal rischio concreto di sparire dal panorama calcistico nazionale al ritorno trionfale in serie A.”

Negli anni più difficili la squadra faticava a trovare una sua identità anche per il continuo avvicendarsi di allenatori in panchina. Quanto ha contribuito la mancanza di un progetto tecnico preciso a far sprofondare il Cagliari nell’inferno della serie C?

“Passammo da Ulivieri e Giagnoni, e poi da Robotti a Tiddia. Certo non c’è stata grande continuità dal punto di vista della guida tecnica, però in quegli anni facemmo anche delle buone cose. Ricordo ad esempio la qualificazione in semifinale di Coppa Italia a spese della Juventus di Platini. Giocammo l’accesso alla finale contro il Napoli di Maradona scudettato, e facemmo comunque la nostra onesta figura. A testimonianza del fatto che i valori tecnici di quella squadra erano notevoli, in alcuni elementi. Non c’era quell’armonia, quell’entusiasmo, quella voglia di venirsi incontro e di aiutarsi l’un l’altro che sarebbe servita per capitalizzare le doti tecniche che indubbiamente avevamo. Quell’amalgama che, a quanto vedo, ha da poco trovato proprio il nuovo Cagliari di Ranieri: un’empatia tra giocatori, ambiente, società e tifoseria che mette tutti nelle condizioni di rendere al massimo delle proprie potenzialità.”

A proposito di Ranieri: quando arrivò al timone del Cagliari, nel 1988, cosa portò in più rispetto ai tecnici che l’avevano preceduto per trascinare la squadra a quell’impresa memorabile di cui ancora oggi si favoleggia?

“Portò una sana determinazione, dei principi di comportamento molto chiari e lineari, una robusta dose di pragmatismo e la consapevolezza, in tutto il gruppo, che durante la settimana si doveva lavorare al massimo per guadagnarsi un posto da titolare la domenica. Garantiva a tutti rispetto e considerazione, e si aspettava che la sua fiducia fosse ripagata anche creando il giusto clima di unione, di solidarietà e di compattezza all’interno del gruppo. Pretendeva da ogni giocatore la voglia di lottare e di combattere fino alla fine contro qualsiasi avversario; poi se quest’ultimo si fosse rivelato più forte l’avremmo applaudito, ma prima doveva dimostrare la sua superiorità.”

Lucio, come mai dopo quella scalata travolgente non venne confermato in serie A nella stagione ’90-’91? Fu una sua scelta o la decisione la prese la società?

“Beh, intanto l’allora direttore sportivo Carmine Longo non voleva farmi un contratto biennale, che invece io richiedevo, per una sua convinzione personale. Questo nonostante io avessi già un accordo non scritto per un rinnovo contrattuale in caso di promozione. Il resto lo fece l’arrivo di diversi nuovo giocatori: da Herrera a Francescoli, passando ovviamente per Matteoli. Io francamente credo che con Matteoli avremmo composto un’ottima coppia di centrocampisti. Non eravamo inconciliabili, saremmo stati complementari. Però la società fece altre valutazioni: magari pensò che la mia presenza avrebbe potuto essere un po’ ingombrante, o che comunque, avendo all’epoca già trent’anni, avrei dovuto lasciare spazio al nuovo corso.

Se fossi rimasto penso che, come avevo sempre fatto nella mia carriera, mi sarei guadagnato la fiducia del mister e dei compagni con le prestazioni in campo. E credo che avrei potuto recitare un ruolo importante in quel Cagliari anche in serie A. Non avrei certo preteso il posto da titolare a tutti i costi: non ho mai avuto questa presunzione, ma ho sempre conquistato ogni traguardo della mia carriera col lavoro quotidiano e dimostrando settimanalmente all’allenatore il mio valore tecnico e morale.

Certo, in quel momento ci restai un po’ male. Per dirla tutta quell’amarezza mi è rimasta ancora addosso. Dopo tanti sacrifici, sofferenze e tribolazioni poter giocare in serie A con la maglia del Cagliari sarebbe stato quasi un premio, un riconoscimento alla carriera. Ma si sa che, nel calcio, la riconoscenza non va tanto di moda…”

Facciamo un salto temporale in avanti: il Cagliari di oggi. Come lo vede e cosa si aspetta dagli imminenti playoff?

“Lo vedo bene, e penso che ai playoff abbia delle ottime chance. L’ho visto dal vivo a Perugia, e mi ha fatto una buonissima impressione. Squadra quadrata, molto organizzata a compatta, com’è nel DNA di mister Ranieri. Sono determinati e consapevoli della loro forza. Ranieri è riuscito a ricreare quel clima di armonia e di sintonia totale tra squadra, ambiente e tifosi che è il miglior viatico affinché tutti possano esprimersi al meglio. Sono sicuro che il mister dirà alla squadra che l’importante è dare sempre il centodieci per cento, senza risparmiarsi, e uscire dal campo a testa alta. Poi il risultato sarà quello che sarà, ma bisogna provarci fino all’ultimo secondo. Solo così si torna a casa con la coscienza pulita.”